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venerdì 10 giugno 2011

TEATRO DEL LEMMING: UN AMLETO IN ASCOLTO

di Cristina Carrisi

Intensa esperienza psico-sensoriale, l’Amleto del Lemming è fra gli appuntamenti teatrali che virtuosamente ha inaugurato l’amabile rassegna romana di teatro indipendente Teatri di Vetro 5. Lo spettacolo chiama la platea – gremitissima – a colloquio con se stessa e col suo effimero mondo. Sono il torpore, l’inettitudine, l’ignavia di Amleto a essere messi sotto la lente d’ingrandimento della ricerca del gruppo rovigotto, a rispecchiarsi nel nostro presente, a parlarci dei nostro tempo. Lo spettatore al suo ingresso in sala viene “coccolato” dalla molle grazia del gruppo di attori in abito da sera che gli offrono leziosi cocktail e cioccolatini, ma ben presto alla – per così dire – “apertura del sipario” viene aggredito dagli stessi, divenuti una selvatica polifonia di voci recitanti e corpi agenti in scene multiple. Senza troppi complimenti i frammenti drammatici messi in scena sfidano i limiti della simultaneità scenica che il pubblico è in grado d’assorbire, agendo in senso disturbante, disintegrando l’attenzione, quasi stordiscono. Ma “il tempo è fuori di sesto. O quale dannata sorte essere nato per riconnetterlo!”. Amleto, invischiato fino al collo nel tempo, è colui che deve riconnettere, riedificare. Il tempo. Il perturbante – che sembra configurarsi con la nostra stessa disabilità ad afferrare, a dominare il tempo – penosamente si insinua fra l’agente del tempo e colui dal quale esso è agito, dominato, usurpato. Ma ecco che nel bel mezzo di una sovraesposizione sensoriale ingestibile, qui del tutto inaspettatamente si consuma una virata “pirandelliana”: gli attori d’un tratto “gettano la maschera”, per così dire, escono dalla “finzione”, prendono a ridere grassamente, come meravigliandosi di sé e del grossolano inganno sotteso all’arte del palcoscenico. Si lacerano definitivamente gli ultimi brandelli di quarta parete rimasti fra attore e spettatore.

E’ uno spettacolo forte, che insegna a essere in preda al proprio stomaco, a soffrire, a reagire. Terapeutico, possibilmente da rivedere più volte. Per scoprire nuove angolazioni del sé e del mondo. E anche per spiare ancora una volta la bellezza/difficoltà del lavoro dell’attore. Molto bravi, superbamente motivati, i dieci interpreti.

INTERVISTA AL REGISTA MASSIMO MUNARO

CRISTINA CARRISI/ Un pensiero sul panorama teatrale/culturale odierno.

MASSIMO MUNARO/ Chiaramente ahimè è un pensiero abbastanza critico, abbastanza preoccupato, sia per i tagli che notoriamente assillano la scena teatrale italiana, sia perché questi tagli provocano una sorta di arroccamento anche delle situazioni più forti a scapito delle realtà indipendenti… Critico anche nei confronti della critica teatrale che è sempre più assente, forse sempre più all’inseguimento della moda effimera del momento. L’unica cosa positiva che rilevo è in realtà l’interesse sempre forte e sempre più vitale da parte degli spettatori. In realtà è come se il teatro assolvesse un bisogno anche, che soprattutto nei giovani trova un riconoscimento, soprattutto poi per le cose forse più piccole, meno visibili, meno note, no? Quelle che non passano per tv, e che pure danno allo spettatore curioso e giovane motivo di maggiore soddisfazione.

CC/ "Il teatro: questo è lo strumento per prendere in trappola la coscienza del re", dice la riscrittura scenica del suo Amleto. Per il Lemming il teatro serve a mettere l'uomo di fronte alle proprie responsabilità?

MM/ Certo, certo. Noi in qualche misura da tanto tempo insomma, forse da sempre, pratichiamo un “teatro dello spettatore”, un teatro che comunque dialoga, che interroga, che mette in gioco anche lo spettatore in una società che invece fa di ciascuno di noi sempre più uno spettatore passivo, un voyeur, un consumatore, e quindi ci relega in un ruolo che è sempre più meschino. Viceversa il teatro che pensiamo di praticare mette in gioco lo spettatore in modo più attivo, più positivo. Da qui anche la risposta per noi sempre positiva da parte dell’incontro con lo spettatore.

CC/ Lo spettacolo nasce da un percorso di ricerca intrapreso a partire dal 2009. Come dirige gli attori? Costruisce il tessuto drammaturgico a partire da improvvisazioni con loro o parte avendo già in mente un disegno più o meno predeterminato che via via si precisa?

MM/ C’è un lavoro molto lungo sull’ attore che noi pratichiamo singolarmente ma anche collettivamente. L’idea del gruppo ci ha accompagnato e continuerà ad accompagnarci nella nostra storia, quindi il Lemming si declina in realtà come un gruppo di teatro, cioè delle persone che si mettono insieme per un progetto che condividono. Sull’attore in particolare abbiamo lavorato nel tempo un nostro metodo che parte dai cinque sensi dell’attore, che si basa fondamentalmente sulla capacità di ascolto, di adeguamento e di dialogo, con se stesso, con lo spazio, con gli altri suoi compagni e con lo spettatore, che per noi è sempre il punto focale dell’esperienza teatrale. Per noi è fondamentale, attraverso il lavoro dell’attore, portare però sempre lo spettatore – in Amleto la comunità di spettatori evidentemente – a essere in gioco, quindi in una sorta di dialogo aperto in cui la direzione dell’attore, partendo da sé, è sempre aperta nella direzione dello spettatore.

Se parliamo della costruzione del lavoro, a volte naturalmente delle scene nascono da una visione precedente registica, ma molto spesso nasce invece da un lavoro anche d’improvvisazione, o di contributo creativo degli attori. Il teatro è sempre uno spazio di creazione collettiva, il compito del regista è quello di dirigere, come dire, le forze in campo, di coordinare le forze che si sviluppano creativamente in scena.

CC/ Ha pensato a una “citazione” di Pirandello nella parte in cui gli attori “gettano la maschera”?

MM/ (ride) Ma certo che c’è un po’ di Pirandello! Ma sì, è evidente naturalmente che ciascun artista si colloca, come dire, in un tempo e in uno spazio: c’è qualcosa che lo precede, qualcosa che lo seguirà, e quindi in qualche modo cerca di portare avanti – questo secondo me dovrebbe essere il compito dell’arte – ciò che abbiamo ereditato prima. Chiaramente Pirandello è un drammaturgo fondamentale, ma è evidente che il gioco metateatrale è proprio già dell’Amleto shakespeariano, è naturalmente Pirandello, è naturalmente il Living, è naturalmente tantissime altre cose. Il problema è come portare avanti quest’eredità, che è anche uno dei temi dell’Amleto. Spesso e volentieri mi sembra che, come dire, la sperimentazione che ha caratterizzato tutto il Novecento teatrale sia semplicemente rimossa e quindi si faccia spesso teatro – pensa alla prosa – come se non ci fosse stato un secolo di sperimentazione. E questo forse a volte è anche un problema dell’avanguardia o presunta tale: cioè, di chi sperimenta oggi come se qualcun altro prima non avesse già trovato delle cose… e rifà senza sapere ciò che è già stato fatto. Allora, è chiaro che nell’Amleto ci sono dei rimandi pirandelliani e molti altri rimandi, però il tentativo è di portare anche più in là il gioco pirandelliano, il gioco del teatro nel teatro, il gioco del teatro come finzione, il gioco del teatro che può essere invece uno spazio di autenticità. E in questo gioco la scommessa del nostro Amleto è quella di portare un passo più in là ciò che lo spettatore si aspetta, ciò a cui assiste.

CC/ Lo spettatore, che appunto nei suoi lavori è posto sensorialmente all'interno della drammaturgia, secondo lei è qui identificabile più con Amleto o con il Re Claudio?

MM/ Lo spettatore nell’Amleto è posto anche drammaturgicamente in modo anche molto stratificato e complesso, perché da una parte è come Amleto, perché ciascuno spettatore è solo in questa massa anonima di spettatori, e viene interrogato, e come Amleto non trova in qualche modo battute, non trova la capacità di agire; allo stesso tempo è parte di questa corte di Danimarca, questo “marcio di Danimarca” a cui assiste impotente, quindi siamo tutti un po’ in quanto spettatori parte di questa corte – e quindi come Re Claudio, come dici tu, ma meglio ancora come parte di questi cortigiani alla corte del re – e allo stesso tempo ci sentiamo come Amleto, schifati da questa corte, ma anche impotenti.

In realtà l’Amleto, come hai visto, è un lavoro che nasce da una partitura molto rigida per gli attori, ma per noi è sempre molto interessante cercare anche il qui e ora dell’evento, cioè il fatto che ogni replica, ogni evento, si apre all’inaspettato dell’incontro con gli spettatori, che possono in qualche modo reagire; perché quando gli si offre il microfono qualcuno può rispondere, può essere che qualcuno parli, ma comunque tutti vanno a pensare cosa potrebbero dire in quel momento, e allo stesso tempo si trovano appunto a non avere battute, spiazzati. Allora lo spiazzamento per me è molto salutare, molto sano, se in qualche modo provoca appunto un movimento interno; il tempo del teatro è il tempo anche che continua dopo la rappresentazione: la gente si ferma a parlare, comunque s’interroga, continua a pensarci. E quindi il tempo, come dire, dell’esperienza è tale appunto perché continua: non è soltanto intrattenimento il teatro per noi, ma è appunto un luogo d’esperienza.

Amleto

in scena il 19 maggio, Teatro Palladium

musica e regia Massimo Munaro

elementi scenici Luigi Troncon

produzione Teatro del Lemming

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