venerdì 30 settembre 2011
INCLUSA
di Federico
Mattioni
Miss Ambra è un’omicida. Le viene assegnato un nuovo lavoro
all’interno di un grande albergo, l’Hotel Joule (trattasi della torre Fiat di
Marina di Massa). In mezzo ai lavori di restauro del luogo, la donna si butta a
capofitto nel lavoro, sostituendosi spesso agli altri. Impiego di lavoro e
privato si alterneranno fino a capovolgerne gli equilibri.
La donna impazzisce definitivamente all’interno di questo
albergo calcificato, dai colori bianco-grigi, perché la sua alta efficienza non
transige distrazioni. Ambra, con fare da direttrice, non permetterà ostruzioni
ai propri piani di lavoro.
La follia come dimensione umana (resa magnificamente dalla
statuaria attrice Ambra Senatore) e sperimentale (il 3D stereoscopico viene
applicato sul bianco e nero delle immagini e su lunghi piani sequenza, dando
luogo ad una inaudita profondità di campo che spiazza disorientando nella
percezione degli oggetti e delle distanze fra gli stessi e le poche persone che
vagano in questo luogo/non luogo).
Proprio per questo, l’immagine statica (i piani fissi
dominano le scene del film) rimpiazza quella moderna e velocizzata della maggior
parte dei prodotti in 3D.
Gli Zapruder
sono un gruppo di video-artisti di Cesena che ha preso il nome da Abraham
Zapruder, un cineamatore che con una cinepresa 8 mm riprese casualmente
l’omicidio di John Kennedy. Sempre pronti alla sperimentazione, il gruppo ha
prodotto lavori in diversi formati, cercando sempre di non ripetersi.
Il film fu presentato nella sezione Fuori Concorso alla 67° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di
Venezia nell’anno 2010.
Si potrebbe dire, infine, che si tratta di un cinema
incarnato all’interno dei meccanismi vibratili di un teatro incorporeo, dove le
forme e gli oggetti sembrano prendere vita, togliendola di peso agli esseri
umani (disumani).
Zapruder
Filmmakersgroup
ALL INCLUSIVE/CINEMA DA CAMERA
Cinema – Video-arte
- Teatro
Film stereoscopico
in 3D (2010 – B/N)
Soggetto, Regia, Sceneggiatura e Set Design David
Zamagni e Nadia Ranocchi
Fotografia Monaldo Moretti
Soundtrack Francesco “Fuzz” Brasini & Zapruder
Montaggio David Zamagni, Nadia Ranocchi & Monaldo
Moretti
con Ambra Senatore,
Sara Masotti, Luca Camilletti, Rosanna Semprini, Monaldo Moretti, Manuel Zani,
Francesco Brasini, Elena Biserna
Produzione Zapruder
co-produzione Steirischer Herbst Festival Graz &
Leonardo Monti (Cineservice)
22 Settembre 2011 (h.21) – Teatro Quirino (Roma)
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giovedì 29 settembre 2011
SUSSIDIO DI DISOCCUPAZIONE PER GLI ARTISTI: due chiacchiere con Tony, lavoratore dello spettacolo, nonché attivista del Valle Occupato.
di Federica
Gualtieri
Il 17 settembre ha
avuto luogo al Teatro Valle Occupato
un’ Assemblea Pubblica riguardo la circolare 105 dell’Inps riguardo i sussidi
di disoccupazione degli artisti. Abbiamo cercato di vederci più da vicino,
scambiando due chiacchiere con uno degli attivisti per avere maggiori dettagli.
Passate da
un’assemblea e l’altra. L’assemblea di oggi su cosa verteva?
Innanzitutto è
stata un’assemblea pubblica sulla disoccupazione visto che c’è stata una
lettera della Corte di Cassazione che afferma definitivamente che gli artisti e
chi lavora nel’ambiente artistico non ha diritto alla disoccupazione.
Risaliamo a tempi
del 35 sotto il fascismo …
Si trattava di un Decreto Regio, neanche un decreto legge, che è ancora in
vigore nonostante le condizioni lavorative e lo scenario politico-sociale siano
cambiate totalmente. Il decreto Regio è nato in una società in cui ancora non
c’erano le Compagnie né i Teatri Stabili né gli Enti Lirici. Esistevano delle
Compagnie che avevano un sistema che oggi non c’è più.
In cosa consisteva
il decreto Regio?
In realtà noi non venivamo descritti nel decreto, perché vi rientravano quelle categorie che non erano
artisti: coloro, cioè, che non avevano la preparazione culturale, tecnico - artistica
né pratica, idonea a tale professione. Questo inneggiava a quella che è poi la
piaga di oggi della situazione odierna culturale: l’impreparazione. In sintesi,
se sei un artista professionista, non hai diritto alla disoccupazione.
Come mai, dunque,
adesso si parla tanto di abolire il sussidio se non è stato mai dato?
In realtà
funzionava così: veniva dato a discrezione di alcuni dirigenti ed impiegati e
di alcune sedi dell’INPS. Vedendo che ci versavano i contributi INPS, per cui
dovevamo aver diritto alla disoccupazione, e non guardando che lavoro facevamo,
ci davano tale sussidio. Quindi capitava che ad alcuni veniva dato, ad altri
no. Dipendeva da come interpretavano il decreto Reggio e da come interpretavano
la nostra domanda di disoccupazione. Il discrimine era basato solo sul fatto di
essere artista.
Potresti spiegarmi
meglio?
Se loro
consideravano solo il fatto di avere lavorato 78 ore contributive in un anno e
il fatto di aver presentato nei tempi la domanda, allora ci andava bene. Se, al
contrario, consideravano il fatto che lavorassi nello spettacolo, di fronte a
tale domanda, l’impiegato o il dirigente potevano rifiutarsi di darla.
Ovviamente quando parlo di disoccupazione parlo di requisiti ridotti: non è che
un artista ha diritto alla disoccupazione intesa come succede per la perdita
del lavoro: noi finiamo di lavorare perché ci finisce il contratto e lavoriamo
in modo intermittente. Di fatto
siamo comunque lavoratori dipendenti.
Con tanto di
contributi versati …
Infatti. Allora
uno dei punti chiave della faccenda è: se non ci vogliono dare più la
disoccupazione, almeno ci ridessero quei contributi versati e mai goduti,
oltretutto considerando che un giorno la nostra pensione sarà veramente
ridicola.
Che ruolo ha
l’Empals in tutto ciò?
L’Empals in tutto
questo tace e sta in conflitto con l’Inps. Quando prendevamo la disoccupazione
a requisiti ridotti la prendevamo dall’Inps, nonostante l’Empals, che tra i due
è l’Ente che prende molto di più, continuasse e continua ad accumulare soltanto
e senza reinvestire per noi.
Che cosa è che
fatto scoppiare poi la bomba per cui la Cassazione si è scomodata tanto?
Un collega a cui
non fu data la disoccupazione, ha fatto ricorso e glielo hanno rifiutato. Lui
non si è fermato ed è andato avanti fino ad arrivare in Cassazione. A quel
punto, quest’ultima, ha mandato una lettera, prima, alle sedi INPS, ricordando che, secondo il
decreto Reggio del 1935, questa categoria non ha diritto ai requisiti di
disoccupazione; poi, il 5 agosto c’è stata la lettera ufficiale della
Cassazione in cui si dichiarava che non avremmo mai avuto diritto a tale
sussidio.
Ad oggi, dunque,
la vostra richiesta sarebbe di ottenere cosa?
Innanzitutto
abrogare quella legge del 35 ed essere equiparati ai lavoratori dipendenti,
perché questo siamo. Poi, chiediamo una normativa speciale per noi: non esiste
nessuna legge che regoli lo spettacolo dal vivo. Questa è la battaglia più grande, quella del
welfare: la precarietà fa parte ed è insita proprio nella natura del nostro
lavoro e, in virtù e maggior ragione di questo, chiediamo un reddito garantito
per i tempi di non lavoro. Con la
recente lettera della Cassazione, inoltre, ci avviciniamo sempre più ad un tipo
di lavoro autonomo, e non abbiamo più diritto alla maternità e alla malattia.
Per assurdo, però, continuiamo a lavorare da dipendenti anche se intermittenti.
In Francia i lavoratori hanno un sussidio mensile anche per i tempi di non
lavoro. Negli altri paesi, chi meno lavora ha più diritto alla disoccupazione.
In Italia è il contrario: te ne riconoscono il diritto a seconda di quanto
lavori.
mercoledì 28 settembre 2011
C’ERA UNA VOLTA UN RE E UNA REGINA
di Paola Monaco
Italiane è la ballata del potere che si disgrega sotto
i colpi del coraggio e della passione, di ataviche istituzioni che si
sbriciolano come castelli di sabbia travolti da fragorose onde, di pregiudizi maschilistici
e ottusi spazzati via da una brezza costante e leggera, direi quasi magica: la
forza d’animo delle donne. Figure discrete, eppur energiche; combattive fino
alla morte, tenaci e risolute: sono garibaldine e patriote convinte. Sono le
signore del Risorgimento.
Emanuela Giordano decide di celebrare il 150° dell’Unità
d’Italia, ricostruendo le gesta impavide di alcune tra le più interessanti
protagoniste di quel tempo: Colomba Antonietti; Cristina di Belgioioso,
Giuditta Tavani Arcuati, Giuseppina Calcagno, Tonina Masanello, Giannina Milli,
Enrichetta Caracciolo, Antonietta De Pace, Sara Nathan. Ognuna con la sua
ricchezza da svelare, con un’avventurosa esistenza da raccontare, con una
meravigliosa bellezza interiore da custodire come esempio in questi tempi di
magra. Sono donne di ogni estrazione, accomunate da un solo ideale: la libertà.
Per tutte loro, le condizioni sociali sono un gravoso giogo da portare. La loro
vita è dura, per la fatica fisica, per la lotta contro un destino già
prestabilito, dentro un convento o accanto a un marito vecchio e tisico.
Sarà il desiderio
di rivalsa, sarà la voglia di affermarsi, ma nulla riesce a frenare il loro
vortice vitale. C’è chi, monaca a forza,
va su e giù per i corridoi del convento a leggere ad alta voce i giornali
rivoluzionari, minacciando il Papa di far scoppiare uno scandalo; chi,
travestita da uomo, tira l’unica cannonata che fa fuggire l’esercito borbonico
con la coda fra le gambe; chi si fa ammazzare con un figlio in grembo
dall’esercito papalino, pur di seguire il marito fino all’ultimo istante di
lotta; chi finanzia le insurrezioni e crea scuole, ospedali e laboratori; chi
recita versi patriottici nei teatri di tutto il Paese, infondendo nei cittadini
entusiasmo e temerarietà.
Fanno invidia e tenerezza,
queste donne. Così ardite e fragili al contempo. La scelta delle tre voci
narranti è eccellente: Maddalena Crippa,
Lina Sastri e Tosca sono un
concentrato di bravura, ironia ed espressività. Non si poteva pensare a
combinazione più efficace. Ognuna di loro ha una propria personalità, un modo
di essere che sa distinguersi e interagire in pieno a seconda dei momenti, come
le pietrine vivaci e colorate di un caleidoscopio. Un tratto in comune, però, è
evidente a tutti: sono interpreti eccelse. Sublimati dalla loro voce, i canti
patriottici fanno venire i brividi e permettono allo spettatore di rivivere,
direi quasi resuscitare, un amor patrio ormai assopito. Eclettiche e versatili,
riescono perfino a passare da un dialetto all’altro, rappresentando tutte le
realtà geografiche coinvolte nella rivoluzione. Il racconto, alternato agli
intermezzi musicali di una singolare orchestra, diventa, così, più veritiero e
credibile, favorendo alle attrici una più immediata identificazione con questi
angeli terrestri, che qualcuno ha avuto la stoltezza di chiamare sfacciate meretrici.
La bandiera dei tre colori è sempre stata la più bella, canta il coro
come preludio alla divertentissima e animata La bella gigugin. Il pubblico si lascia travolgere da questa
esplosione di emozioni e accompagna la performance
battendo le mani a tempo di musica.
Esaltare la patria
vuol dire anche valorizzarne le risorse femminili. L’auspicio è che, nel nostro
tempo, chiunque legga il passaggio del codice napoleonico che richiama la sottomissione della donna all’uomo per
inferiorità, possa farsi una sonora risata liberatoria.
Lo spettacolo si
chiude con la serenata Bella sei nata
femmina: un delicato omaggio a tutte donne fiere di ieri e di oggi.
ITALIANE – BALLATA
DELLE DONNE FIERE
Regia e drammaturgia di Emanuela Giordano
Con Maddalena Crippa, Lina Sastri, Tosca
Accompagnate dalla Bubbez orchestra
Coro della Casa Internazionale delle donne
20 – 22 settembre
2011, Teatro Argentina di Roma
lunedì 26 settembre 2011
IL MIO REGNO PER UN CAVALLO
di Paola Monaco
Plasmato da rozzi stampi, storpio, claudicante e saturo
d’odio verso un mondo che non ama e che
non lo ama: questa è l’immagine di Riccardo III che Shakespeare vuole presentare
al pubblico per indagare sull’odio nella storia, intesa come corso degli
eventi, e sulla storia dell’odio, nella sua universalità.
Lo spietato
sovrano, assetato di sangue e mai sazio di vendetta, è una figura centrale nel
conflitto tra la casata degli York e quella dei Lancaster. Egli incarna quella
deformità che, seppure in fogge più subdole e celate, ha caratterizzato i
potentati inglesi del XV secolo. Ma la malvagità di questo personaggio è fortemente
dissonante anche rispetto a un ambiente comunque corrotto. Essa ha qualcosa che
disturba, che crea un’inquietudine interiore, una fastidiosa sensazione di
disagio. Riccardo III è il marcio che c’è in noi, è il mistero dell’ambiguità
del male fatto persona. Non c’è traccia di buonismo in lui. Della sua
mostruosità, sia fisica che morale, se la ride di gusto, con ironia: «Mi sono ingannato fino a oggi sopra la mia
figura. S’ella (Lady Anna) mi trova,
al contrario di me, un uomo di straordinario fascino, m’accollerò, costi quel
che costi, la spesa di uno specchio». A lui non piacciono gli svaghi, le
mollezze, né tanto meno la civetteria delle donne (un pregio, oggigiorno). Non
gli rimane che guardare la sua ombra e ragionare.
L’ombra è
auto-negazione, il suo non-essere, il rifiuto della propria persona. Tuttavia,
è probabilmente l’eccessiva contemplazione di questo lato oscuro che lo porta a
un cortocircuito mentale, spingendolo ad agire con tanta efferatezza. Lo
sciagurato sopprime impietosamente tutto che rappresenta un ostacolo al
raggiungimento della meta: il trono, ossia l’affermazione di sé, il riscatto.
Parenti stretti, fedeli servitori, validi giovani e perfino la moglie diventano
agnelli immolati all’altare della sua bramosia. Se sia solo l’avidità di potere
a condizionare il suo agire, solo complessi studi psicologici potrebbero
stabilirlo. Potremmo azzardare l’ipotesi di un condizionamento ontogenetico che
lo ha marchiato sin dalla nascita.
Chi sarebbe davvero la vittima, a questo punto: chi opera il male o chi ne
rimane affascinato?
Nel Riccardo III
di Mario Carniti è ben evidente la cinica
consapevolezza del proprio limite, che lo relega ai margini del socialmente
ammissibile. «Sì, le ho ucciso marito e
padre, ma che importa?». Egli vive sempre al confine tra vita e morte,
follia e concretezza, scaltrezza e alienazione. Anche le macchine sceniche,
frutto dell’ingegnoso lavoro di Gerardo
Espinoza e Davide Ciancichi, sono
concepite per segnare passaggi cruciali tra due dimensioni limitrofe: la macchina
della tortura, dove il fratello Giorgio e Lord Hastings perdono la vita; la
piattaforma scorrevole, che sembra sempre fermarsi sul ciglio del palcoscenico;
il carrello della torre, tomba del giovane principe e di suo fratello. La
macchina ha un ruolo di moderno Acheronte, perché segna il passaggio all’altra
dimensione, che non è solo la morte, ma l’ignoto universo della coscienza e dei
suoi fantasmi. Riccardo III, come il Faust di Goethe, dimostra, alla fine
dell’opera, di essere umano, di
provare delle emozioni, di aver paura. Ricordiamo, a tal proposito, il
disperato grido: «Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!», espressione
della volontà di fuga di fronte alla sua desolazione e solitudine. Si potrebbe
parlare di una sorta di redenzione che, non a caso, arriva sempre a ridosso
dalla morte, quando il limite va
necessariamente sorpassato.
Maurizio Donadoni è a suo agio nei panni del protagonista:
beffardo, spavaldo, sprezzante di ogni morale, conferisce quel tocco canzonatorio
al malvagio che lo rende del tutto singolare.
RICCARDO III
Regia di Marco Carniti
Traduzione di Enrico Groppali
Dal 2 al 18 settembre
2011, h. 21.15, al Globe Theatre di Roma
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