di Paola Monaco
Nonostante la scena si apra con un brioso turbinio di forme
e colori, mescolati allegramente negli Scalognati, pazzerelli abitanti di un
mondo lontano anni-luce dal nostro, la rappresentazione de I giganti della montagna lascia trapelare, in maniera pressoché
costante, un filo di amarezza. Sono principalmente due i fattori che
determinano questo stato di inquietudine latente: il primo è legato
all’incompiutezza dell’opera, dovuta alla scomparsa dell’autore, che la rende una
sorta di performance-testamento; il
secondo elemento si riferisce a una morte più simbolica: quella della poesia
all’interno del teatro e della vita.
Calata all’interno di una evidente polemica
politico-sociale, la fiaba si imbeve
di un fascino tanto più grande quanto più è necessario sottolinearne l’aspetto
critico. Questo perché, in risposta all’elemento brutale e materiale figurato
dai Giganti, la fantasia degli Scalognati, persone raffinate e sensibili in
barba al loro aspetto giocoso, si presenta come baluardo della Bellezza. Il
sogno è dittatore in questo regno
immaginario, dove l’evanescenza è concretezza e l’illusione è realtà.
Crotone, prodigioso regista di un’esistenza fantastica, che
Calderón de la Barca aveva già intuito ne La
vida es sueño, è in prima linea nella lotta per l’affermazione di sé, di un
proprio spazio dominato da leggerezza e spontaneità. Ingenui tontoloni, farneticanti
vecchiette, deliziose signorine trasformate in bignè da abiti eccessivi,
ombrellini volteggianti, nastri di ogni colore, luci che vivono di vita
propria: tutto rapisce la fantasia infantile dello spettatore che, in questa
dimensione, riconosce qualcosa di convincente, al cui suono vibra la sua anima.
Solo in questi confini il teatro può rimanere vero.
Ma non tutto è scevro da dolore. La sofferenza nasce proprio
dallo sforzo di credere nell’incredibile. Gli Scalognati accolgono tutto ciò
che il mondo rifiuta, spesso per ignoranza. Così, la raminga compagnia della
contessa Ilse, in cerca di un pubblico che possa finalmente apprezzare la
rappresentazione de La favola del figlio cambiato, trova qui momentaneo
conforto.
La protagonista di questa nuova realtà di teatro nel teatro,
Antonella Alfieri, capelli rosso
melograno e viso estremamente espressivo, ammalia con la sua bellezza eterea e
con la sua bravura. Essa incarna, con grande sensibilità, il dolore
dell’umanità incompresa, rifiutata, tormentata da mille sciagure. Il mago
Crotone, impersonato da un sempre brillante e impeccabile Marcello Amici, è il savio consigliere che non si perde d’animo, il
personaggio super partes che avvolge
con il suo nero mantello le drammatiche realtà di ognuno. Lui è il re della
fantasia, dell’arbitrario, dell’allucinazione delirante, della dimensione
onirica che fa ballare il valzer ai fantocci del castello. Essi, duplicazioni dei personaggi stessi,
intervengono a confondere la percezione della realtà, come vuole la tradizione
pirandelliana. Nel momento in cui la Contessa decide ostinatamente di partire
verso la montagna degli zotici Giganti, per realizzare il suo progetto, un
lenzuolo bianco cala sulla scena. Nulla è a caso.
A chiudere, il commovente monologo drammatico del regista, che riporta il testamento di Pirandello.
Luci e musica, adeguatamente utilizzati, hanno contribuito
fortemente alla buona resa dell’incanto.
La Bottega delle maschere, con i suoi validi attori, continua a
meravigliare con la sua maestria ed eccellenza, salutata dal pubblico con una
pioggia di interminabili applausi.
I GIGANTI DELLA MONTAGNA
La Bottega delle maschere
Giardino della Basilica dei Santi
Bonifacio e Alessio all’Aventino
Regia: Marcello Amici
Direzione artistica: Natalia
Adriani
Con Marcello
Amici, Marco Vincenzetti, Simone Destrero, Stefano Capecchi, Umberto
Quadraroli, Linda Sessa, Antonella Alfieri, Maria Lovetti, Carlo Bari, Andrea
Carpinteri, Simona Giaimo, Giorgia Serrao, Marco Tonetti, Anna Varlese.
Pirandelliana 2011, dal 5 luglio al
7 agosto 2011