TDC E' UN portale CHE vuole dare voce ad un nuovo modo di fare critica. Una critica che non attacca, una critica che respira, che si riconosce in ciò che vede. Consapevolezza, introspezione ed umiltà sono le parole che descrivono tale lavoro di ricerca. Perché fare critica non sia più scrivere solo di teatro, ma divenga finalmente scrivere per il teatro

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sabato 6 agosto 2011

L’INDECIFRABILE CASO BEBAWI

L’INDECIFRABILE CASO BEBAWI
di Paola Monaco

Cosa successe, quel fatale lunedì 18 gennaio 1963, negli uffici romani della Tricotex? Il regista Luigi Di Majo cerca di rappresentarlo in forma di spettacolo-istruttoria, ne Il delitto dei coniugi Bebawi. La performance si ispira a un noto fatto di cronaca che, ancora oggi, rimane annoverato tra i più inquietanti casi irrisolti degli ultimi decenni.
La scena è ridotta all’essenziale: pochi banchi, qualche sedia e un leggio. Nulla deve distogliere l’attenzione dalla ricostruzione di questo rompicapo. Schierati come un plotone d’esecuzione, giudici e avvocati sono regolarmente allineati di fronte al pubblico, in un confronto aperto, quasi una richiesta d’aiuto, nell’ennesimo tentativo di scovare la verità tra le pieghe di una storia oscura, ricostruita pedissequamente in circa 142 udienze, senza che se ne cavasse un ragno dal buco.
Claire Ghobrial, donna avvenente e dalla forte personalità, e il marito Youssef Bebawi, apparentemente più contenuto, ma non per questo meno diabolico, sono seduti agli antipodi del palcoscenico, ognuno a raccontare la propria versione dei fatti. Lo spettatore segue il rimpallo di accuse reciproche come in una partita di tennis, ricostruendo nella propria mente, a ogni nuova battuta, l’evolversi della vicenda, culminata nella morte cruenta di Farouk Chourbagi, amante di Claire, trovato a terra crivellato di colpi e con il volto sfigurato dal vetriolo.
La voce narrante, posta in un angolo della scena, tenta di aiutare il pubblico a trovare il bandolo della matassa, ma invano. Tutta l’azione porta solo a chiarimenti parziali di fatti limitati nel tempo, inseriti in un contesto misterioso in cui la ragione dello spettatore, come anche quella dei giudici, brancola nel buio più totale. Questi ultimi, in particolare, risultano volontariamente goffi e impacciati, consapevoli di aver di fronte menti dall’ingegno affilato.
Così, mentre i magistrati annaspano tra i documenti e sono quasi timorosi nella formulazione di domande e ipotesi, i coniugi difendono con destrezza e passione il loro punto di vista. Lei è determinata, aggressiva, sicura di sé. Anche gelosa e istintiva, come una fiera. Ben vestita e curata nell’aspetto in ogni minimo dettaglio, lascia pensare a una signora intraprendente, che ama il rischio e la bella vita. E’ lei che tende a catalizzare le antipatie e i sospetti dei presenti, perché è lei che esce fuori dai ranghi sociali di donna sottomessa e remissiva. E cosa dire dell’ambiguo marito che, pur ripudiando la moglie secondo la legge coranica, continua a vivere con lei e i suoi tre figli? Perché l’inaspettato e improvviso viaggio insieme, immediatamente dopo il delitto? Chi dei due stava fuggendo davvero?
Il primo verdetto di assoluzione per insufficienza di prove, dopo 30 ore di camera di consiglio, non è affatto liberatorio per il pubblico. Condannati in Appello e successivamente in Cassazione, i due sfuggono comunque alla sentenza. Il regista ricrea un clima di suspense, di sospensione di giudizio, che continuerà a provocare l’intelligenza dello spettatore anche dopo la rappresentazione. La domanda è quella universale: dov’è la verità?

IL DELITTO DEI CONIUGI BEBAWI
Tratto da Coppie Assassine di Cinzia Tani
con Giuseppe Chiaravalloti, Mafalda Guarente, Antonio Buttazzo, Beatrice Palme, Filippo Chiricozzi, Luigi Di Majo, Ferdinando Abbate, Marina Binda, Cinzia Tani, Chiarenza Millemaggi, Maria Teresa Condoluci, Corrado Sabellico, Lucilla Tamburrino,  Sabellico, Lucilla Tamburrino; coordinamento generale Lucilla Tamburrino.
Regia Luigi Di Majo

26 luglio 2011Rassegna I Solisti del Teatro 
Giardini della Filarmonica Romana - Roma

venerdì 5 agosto 2011

LA MONTAGNA INCANTATA


di Paola Monaco

Nonostante la scena si apra con un brioso turbinio di forme e colori, mescolati allegramente negli Scalognati, pazzerelli abitanti di un mondo lontano anni-luce dal nostro, la rappresentazione de I giganti della montagna lascia trapelare, in maniera pressoché costante, un filo di amarezza. Sono principalmente due i fattori che determinano questo stato di inquietudine latente: il primo è legato all’incompiutezza dell’opera, dovuta alla scomparsa dell’autore, che la rende una sorta di performance-testamento; il secondo elemento si riferisce a una morte più simbolica: quella della poesia all’interno del teatro e della vita.
Calata all’interno di una evidente polemica politico-sociale, la fiaba si imbeve di un fascino tanto più grande quanto più è necessario sottolinearne l’aspetto critico. Questo perché, in risposta all’elemento brutale e materiale figurato dai Giganti, la fantasia degli Scalognati, persone raffinate e sensibili in barba al loro aspetto giocoso, si presenta come baluardo della Bellezza. Il sogno è dittatore in questo regno immaginario, dove l’evanescenza è concretezza e l’illusione è realtà.
Crotone, prodigioso regista di un’esistenza fantastica, che Calderón de la Barca aveva già intuito ne La vida es sueño, è in prima linea nella lotta per l’affermazione di sé, di un proprio spazio dominato da leggerezza e spontaneità. Ingenui tontoloni, farneticanti vecchiette, deliziose signorine trasformate in bignè da abiti eccessivi, ombrellini volteggianti, nastri di ogni colore, luci che vivono di vita propria: tutto rapisce la fantasia infantile dello spettatore che, in questa dimensione, riconosce qualcosa di convincente, al cui suono vibra la sua anima. Solo in questi confini il teatro può rimanere vero.
Ma non tutto è scevro da dolore. La sofferenza nasce proprio dallo sforzo di credere nell’incredibile. Gli Scalognati accolgono tutto ciò che il mondo rifiuta, spesso per ignoranza. Così, la raminga compagnia della contessa Ilse, in cerca di un pubblico che possa finalmente apprezzare la rappresentazione de La favola del figlio cambiato, trova qui momentaneo conforto.
La protagonista di questa nuova realtà di teatro nel teatro, Antonella Alfieri, capelli rosso melograno e viso estremamente espressivo, ammalia con la sua bellezza eterea e con la sua bravura. Essa incarna, con grande sensibilità, il dolore dell’umanità incompresa, rifiutata, tormentata da mille sciagure. Il mago Crotone, impersonato da un sempre brillante e impeccabile Marcello Amici, è il savio consigliere che non si perde d’animo, il personaggio super partes che avvolge con il suo nero mantello le drammatiche realtà di ognuno. Lui è il re della fantasia, dell’arbitrario, dell’allucinazione delirante, della dimensione onirica che fa ballare il valzer ai fantocci del castello. Essi, duplicazioni dei personaggi stessi, intervengono a confondere la percezione della realtà, come vuole la tradizione pirandelliana. Nel momento in cui la Contessa decide ostinatamente di partire verso la montagna degli zotici Giganti, per realizzare il suo progetto, un lenzuolo bianco cala sulla scena. Nulla è a caso.
A chiudere, il commovente monologo drammatico del regista, che riporta il testamento di Pirandello.
Luci e musica, adeguatamente utilizzati, hanno contribuito fortemente alla buona resa dell’incanto. La Bottega delle maschere, con i suoi validi attori, continua a meravigliare con la sua maestria ed eccellenza, salutata dal pubblico con una pioggia di interminabili applausi.

I GIGANTI DELLA MONTAGNA
La Bottega delle maschere
Giardino della Basilica dei Santi Bonifacio e Alessio all’Aventino
Regia: Marcello Amici
Direzione artistica: Natalia Adriani
Con Marcello Amici, Marco Vincenzetti, Simone Destrero, Stefano Capecchi, Umberto Quadraroli, Linda Sessa, Antonella Alfieri, Maria Lovetti, Carlo Bari, Andrea Carpinteri, Simona Giaimo, Giorgia Serrao, Marco Tonetti, Anna Varlese.

Pirandelliana 2011, dal 5 luglio al 7 agosto 2011

mercoledì 3 agosto 2011

PENE D’AMOR PERPETUE




di Paola Monaco

La fama cui ardentemente aspirano i protagonisti di Pene d’amor perdute, tanto da voler stoicamente rinunciare ai più allettanti piaceri della vita per ben tre anni, non richiama affatto la gloria imperitura di antichi eroi, quanto piuttosto l’edificio bronzeo dagli innumerevoli accessi, descritto nelle Metamorfosi di Ovidio, dove la confusione ha stabilito il suo regno, ai confini dell’universo.
L’ardore che infiamma l’animo di questi giovani, ivi compreso il re di Navarra, suscita la nostra benevola ammirazione, in quanto ispirato ad ideali da considerarsi ormai in via d’estinzione. Esso, tuttavia, è talmente disgiunto dalla realtà da generare solo equivoci ed incomprensioni.
A cambiare le carte in tavola arriva un elemento superiore di tale potenza che, come direbbe un salmo biblico, di fronte ad esso, chi resiste? Trattandosi d’amore, potremmo pensare a un ardore sublime. Ma non è così. Meschini tradimenti al giuramento effettuato, sotterfugi di basso profilo, menzogne e debolezze degne di svenevoli donzelle, rintronanti cotte da inesperti adolescenti ruoteranno attorno a un unico fulcro: la principessa di Francia e le sue damigelle. Tra tintinnanti risatine e sagaci battute, le donne mostrano di avere il totale controllo della situazione e difficilmente cedono a banali lusinghe o a sfarzosi doni, che oggigiorno corromperebbero animi femminili a palate. I due schieramenti si cercano, si punzecchiano, si respingono e si studiano, in un classico gioco d’amore che si ripete da secoli, una sorta di quadriglia antica in cui cambiano solo le formazioni di danzatori. Delizioso il turbinío di lettere segrete, smarrite e scambiate, lette e stracciate, veicoli di ogni varietà di emozione che all’amore può essere associata.
La performance diverte perché gli attori, oltre a rappresentare efficacemente le scaramucce sentimentali tramite una recitazione impeccabile, non ci fanno mancare canti e balli, spaziando tra i generi più diversi. Senza parlare, poi, di quel colorito intercalare di espressioni tipicamente popolari, come «E stacce!» o «Ma vaff…!», parodia di un affettato linguaggio di corte, che trasporta il Seicento shakespeariano in un’attualità più familiare al pubblico e forse anche più sensata. Non passano inosservate sfiziose macchiette, come il poliziotto con accento marcatamente siculo, il ruffiano contadino sardo e un Don Armando con ispanica inflessione, che richiamano alla mente la commedia dell’arte italiana.
Il linguaggio è birichino come l’amore, nonché funzionale alla critica sociale. A chi sfugge la battuta sugli uomini anziani che vanno giù di testa per il sesso? A tal proposito, davvero spassosa è la figura della maestra Olofernia che, con fare dotto e saccente, bacchetta chiunque non mostri di avere una padronanza ineccepibile della lingua e rabbrividisce agli strafalcioni dei suoi interlocutori. Il suo gioco di rime sul cervo cazzotto/cazzetto è da morir dal ridere.
L’amore, in questa commedia, come forse anche nella vita, è un gran pasticcione: ignora età, condizione sociale e spergiuro di sorta. Tutto è cucinato nel suo grande calderone. Tutto è trasformato, idealizzato. Così, i censori dell’amore diventano devoti di S. Cupido, mettendolo sul piedistallo al posto della più arida fama.
Il lieto fine, tuttavia, è rimandato all’anno successivo, mantenendo un’aura di mistero sull’efficacia di tanto semplificare, che non ha mai convinto neanche l’autore stesso.

Pene d’amor perdute
Regia di Alvaro Piccardi
Traduzione e adattamento di Alvaro Piccardi

Globe Theatre, 31 luglio 2011, Roma