TDC E' UN portale CHE vuole dare voce ad un nuovo modo di fare critica. Una critica che non attacca, una critica che respira, che si riconosce in ciò che vede. Consapevolezza, introspezione ed umiltà sono le parole che descrivono tale lavoro di ricerca. Perché fare critica non sia più scrivere solo di teatro, ma divenga finalmente scrivere per il teatro

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mercoledì 2 dicembre 2009

IL REGNO PROFONDO


IL REGNO PROFONDO

di Gianpaolo Marcucci

Dentro una stanza che potrebbe esser situata su una nuvola, tanto è lieve la voce di chi l’abita, il cupo tepore di una lampada illumina uno scrittoio, sopra il quale è ordinatamente posta una preghiera. La figura dall’abbigliamento scuro e stridente che si intravede entrare nella scena è una donna adulta, che senza indugio siede dinnanzi alla supplica. Comincia la lettura. Una litania, che come vuole la tradizione alterna parola e canto, voce e melodia, è elemento primo dell’intera rappresentazione. Si sente, chiaro e scandito, il lamento di una donna che implora al suo domine di essere perdonata, e chiede, con reverenza, di non permettere che avvenga la sua rinascita in un’altra vita. Quello che Claudia Castellucci, una delle menti eccelse della Socìetas Raffaello Sanzio, propone e conduce è un soliloquio dialogico di rara genialità. Un viaggio nel regno intimo della mente. “Non farmi rinascere un’altra volta” chiede la donna al suo signore, attanagliata al sol pensiero di doversi ridestare in un mondo la cui giustizia è randomicamente imprevedibile. “Non farmi rinascere”, è un’ossessione, un’ossessione che siede sopra la consapevolezza di essere profondamente fortunati ad avere il problema di doversi scegliere un pigiama col quale andare a letto. Regno Profondo è nido di una poetica riflessione da parte dell’interprete/autrice, intorno alla condizione umana. Se si ascolta il dolore di coloro che nascono o sono nati nel lato sbagliato (spaziale o temporale che sia) del nostro pianeta, non si può che domandare alla propria proiezione antropomorfa del divino di concedersi una svista, e al momento della morte, non garantire risveglio. Accanto alla richiesta c’è poi la gratitudine. Ringraziare il Dio melodico che ci osserva è un dovere morale nella preghiera della donna, poiché in questa vita privilegiata, anche ciò che è male seppur rimanendo un male, è un male da signori. Il relativo che tanto domina la nostra società viene così per un attimo fatto tacere, per gettare uno sguardo sulla visione assoluta. Due potenti divinità prendono forma. La fame e il freddo. Non si può essere scioccamente atei dinnanzi ad esseri così ieraticamente spaventosi. Tali entità sovrumane incombono sugli occhi della terra, e il loro peso è tanto percepibile da far dire alla donna che nel mondo “C’è un bisogno universale di frittura”. Di ironica profondità, questa frase altri non è che un esempio dell’uso estremamente accurato e sapiente del registro comico, che, intervenendo al momento giusto, quasi sussurrato, contribuisce a tenere sempre viva l’attenzione dell’auditorio (di sicuro da segnalare come davvero ingegnosa è la scelta di render tale registro, chiave d’esposizione di un‘interessante analisi critica di una preghiera ormai istituzionale quale il Padre Nostro cristiano). Ma il regno di fandonia è un regno estremamente controverso; ad accompagnare la devota nel percorso di preghiera vi è infatti un Dio d’evocazione schizofrenica; un Dio che risponde senza manifestarsi, sentenzia senza esistere, se non nella mente di chi lo cerca, e lo teme. Altra colonna portante del testo, è la riflessione sulla “Vita”, quella che non si conclude con la morte del singolo, quella che permane, la vita delle vite, riflessione che si interseca poi col rapporto tra corpo e mente, tra corpo e anima. La proprietà del proprio corpo può essere messa in discussione e lasciare spazio a un senso di ospitalità. Essere ospiti del proprio corpo, porta però, prima o poi, a volerlo lasciare, per poter finalmente tornare a casa. L’interpretazione della Castellucci è emozionante, limpida e sentita, e la scelta musicale molto accurata. Uscito inaspettatamente da “Alieno”, rassegna interna della Socìetas Raffaello Sanzio presentata al teatro Comandini di Cesena all’inizio della scorsa estate, e ospitato dal teatro India di Roma all’interno del festival teatrale “Le vie del festival”, ci auguriamo che Il Regno Profondo sia presto riproposto anche in molti altri teatri Italiani, che, oggi ancor più che in altri momenti, hanno bisogno di lavori di tale qualità e spontanea ricercatezza.

Il Regno profondo (lettura drammatica)
Sermone scritto e recitato da Claudia Castellucci
tecnico: Eugenio Resta
organizzazione: Gilda Biasini, Cosetta Nicolini
produzione: Socìetas Raffaello Sanzio

L’ANIMA DI ROBERTA NICOLAI

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L’ANIMA DI ROBERTA NICOLAI

di Gianpaolo Marcucci

In una città che corre, frenetica come un treno, cinque morsi di animo umano, cellule staminali di una vischiosa identità collettiva, si intersecano in giochi emotivi distanti e familiari. Il mondo è troppo caldo o sono gli uomini che sono troppo deboli? A chiederselo è Roberta Nicolai, direttrice artistica della compagnia Triangolo Scaleno Teatro che porta in scena al teatro Furio Camillo di Roma lo spettacolo “Anima”, una rivisitazione “azzoppata”, come lei stessa ci dice, del testo di Bertolt Brecht, L’Anima Buona del Sezuan. È la storia di una donna, un’anima buona, che tenta di aiutare chi è malato di miseria. Il riscaldamento è troppo alto, “sono tempi terribili”, così quelle figure ambigue si lasciano trasportare dal desiderio (illusione?), di una vita meno rovente.

Come parti di un solo copro, una schiera di vestiti è sospesa in cielo. Aspetta di esser indossata. Ma è il colore di un vestito a provocare sofferenza? O l’identificazione a un idea? I personaggi, il cui viso farebbe pensare ad una singolarità, sono intercambiabili, tasselli di un’unica sola anima, che alterna stati e sensazioni come si alternano i colori di un semaforo. E’ l’annullamento dell’individualità e il trionfo dell’identità collettiva. Nessuno ha niente di proprio, tutto e fuso e confuso, e la musica pop utilizzata nella scena, è esempio lampante di questo agglomerante common groud.

Il divino, che in Brecht è presente come personaggio, qui è sottinteso interlocutore, un misterioso capo, demone interno, al quale i personaggi si rivolgono con devozione. La struttura, divisa in scene, è paragonata alla composizione di un libro. Roberta Nicolai dimostra di conoscere l’autore anche al di fuori del testo, intramezzando le varie scene/capitoli dello spettacolo con degli indicatori che servono a guidare lo spettatore nella lettura, presi dal “Libro di devozioni domestiche” dello stesso Brecht.

Vi è una scelta precisa di accentuare il concetto di miseria, come causa del male. La sistemica schiavitù nei confronti del denaro e quindi del lavoro, viene qui posta come centro della riflessione sull’incapacità di essere buoni. “È tutta colpa della miseria”, una questione di economia. Si rabbrividisce di fronte al volto del capitalismo più ingordo raffigurato scenicamente da un inquietante muro dell’odio (quasi orwelliano) o dalla stridente innocenza di una filastrocca. Ma non si può scappare. I lati oscuri che si presentano, dopo un momento sono color pastello. Sono lati, appunto, di un unico icosaedro emotivo, quale, l’anima che si vuole raccontare, l’anima di una donna/umanità, è. Nell’andamento della storia il punto di vista cambia. Non è forse solo colpa della miseria. Anche quando l’economia non rappresenta più un problema, il male continua a persistere, gratuitamente. La giovane donna, l’anima buona, quella flebile scintilla che aveva acceso la speranza negli occhi della città, alla fine scompare. Non muore, ne scappa, scompare, coperta e sopraffatta da tutto il resto.

a n i m a

dal 1 al 6 dicembre 2009 Teatro Furio Camillo Roma Progetto, drammaturgia e regia Roberta Nicolai Interpreti : Michele Baronio, Tamara Bartolini, Antonio Cesari, Francesca Farcomeni, Enea Tomei Costumi e scene: Andrea Grassi Scenotecnica : Giovanni Di Mascolo Sound editor : Gianluca Stazi Produzione : tst e OFFicINa di triangolo scaleno teatro Con il sostegno di : Festival Quartieri dell’Arte (VT) Durata : 80’

“LEGGE E ORDINE” AL TEATRO INDIA

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E’ evidente che quando un Cristo maldestro esce quatto dall’armadio della propria stanza da letto, non ci si può aspettare una notte tranquilla. La scena che Raquel Silva, attrice e drammaturga portoghese appartenente all’entourage di Giorgio Barberio Corsetti, propone in Legge e Ordine, sua ultima creazione, è infatti ghermita di ambigui e surreali spicchi di realtà. Due entità, distanti ma cucite fra loro, dilatano lo spazio di una scena anonima, quasi volutamente mediocre, saggiandone sapientemente le superfici. Lo spazio è parte di essi e loro proiezione. Il dramma che li muove è quello delle relazioni umane. Un lui e una lei, che volteggiano nella scena raccontando e raccontandosi, alla ricerca della domanda giusta che possa condurli all’illusione di una falsa risposta. Ma la risposta non arriva mai, perché non è voluta, e i due nel relazionarsi l’un l’altra, pare non possano riconoscersi e riescano, a malapena, a toccarsi come storpi.[1] Non è l’altro che può venir in aiuto quando il male è nel dubbio di se stessi. Per quanto si dimentichino le cicatrici, quando ci si strappano lentamente le cuciture da dosso, sino a trovarsi lontani da un intero che prima era metà, non si può prescindere dal dolore della carne macerata che ancora sanguina, seppur pacatamente. Il distacco, anche se primordiale, anche se inavverato, è motore primo del vuoto, elemento cardine della riflessione di Raquel. Per quanto paradossale possa essere una simile definizione, l’impressione può essere quella descritta nella frase esser solo in un mare di soli. Ma non ci sono massimi sistemi, e sguardi al cielo (a parte nel parlar con Dio, ma Dio esce dall’armadio…), c’è invece un immersione nella mente, nel pensiero, e in un’ironica angoscia del “chi siamo” o nella presa di coscienza del “cazzo, tocca a noi”. Legge e ordine è un viaggio nell’identità, o meglio nelle possibili identità. L’identità di uomo, e di donna, l’identità di ruolo o l’identità di una agognata e deludente vita filo-borghese. La normalità fa paura perché è normale. Giunti a metà della propria vita, forse si sperava in qualcosa di diverso, in una routine meno egemonica. A fornire libertà assoluta di volare con e nella mente, è però la tangibile atmosfera onirica, che rende possibile qualsiasi cosa. I personaggi sono in grado di passare da un pensiero a un altro, da una storia all’altra, senza preavvisi, perché l’inconscio non da preavviso. I ruoli si intersecano, le facce si modificano, i corpi si plasmano; nel gioco delle parti, l’uno diviene l’incarnazione delle difficoltà dell’altro. Abbiamo così un poliziotto ballerino, una paranoica, un giudice irremovibile seduto su un armadio e un ladro/matador messo a lottare nudo su un filo per il suo equilibrio. La legge e l’ordine restano nella forma, nell’abito, perché nella vita dei personaggi tutto vi è fuori che l’ordine, e l’unica legge che governa il mondo, è quella del tempo, che inesorabile scorre senza accennare ripensamenti. Nel trambusto della scena, coppie cangianti si susseguono in un divenire di amori e distacchi e l’orologio sembra poter essere ingannato, o distratto, così da riuscire a fare almeno un tentativo, uno solo, di reinventarsi, all’infinito, purché non si termini con il corpo appeso a un filo e la mente imprigionata in uno specchio.

Teatro India

Dal 27 ottobre al 1 novembre 2009

“Legge e Ordine”

Produzione: Fattore k

regia e drammaturgia: Raquel Silva

con: Julien Lambert e Raquel Silva

Gianpaolo Marcucci


[1] Parole della poetessa Sylvia Plath

“ALLALUNALALONEH”

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“ALLALUNALALONEH” Teatro Vascello - Roma 30 settembre - 4 ottobre 2009 di Gianpaolo Marcucci ALLALUNALALONEH, Performance Mobiligence 2009, Teatro Vascello, Roma pubblicato il 12/10/2009 Terzo capitolo della saga dedicata alla poesia di Elio Pagiarani “Come alla luna l’alone”, Allalunalalonehdebutta al Teatro Vascello come prima tappa della stagione 2009/2010. Filamenti di tela bianca riempiono una scena che sembra irreale. Potrebbe avere qualsiasi dimensione, qualsiasi consistenza. Tre corpi al suo interno, come in una scatola skinneriana, cercano iterativamente uno spazio, fisico e materiale, che contenga delle proprietà differenti da quelle già conosciute ed elaborate. Accanto a questi, un individuo, quasi tutt’uno con il suo braccio meccanico (telecamera che è estensione del suo corpo), entra nei loro movimenti sino a succhiarne particolari piccolissimi, che in un real-time in differita vengono inviati all’occhio d’un proiettore, per divenire giganti e illuminare di immagini il luogo scenico. L’ambiguità organica della sua figura, espressa da un vestiario antisettico, è accentuata dal suo essere collegato ad un cavo lunghissimo che scompare nei tralicci del soffitto del teatro. Tutto è vicino e lontano, e comunque risolvibile in una corsa; l’alternanza è una scelta definita e definitiva. Al movimento reale ed alla condizione di luce è intervallato un movimento virtuale ed il buio. Le proiezioni a fari spenti, oltre a far emergere la natura aracnea della struttura scenografica, permettono ai corpi danzanti di placare i polmoni. Allalunalaloneh è un ballo sfrenato. I corpi degli automi organici che prendono spazialmente possesso dell’ambiente cercano, in maniera estenuante, una condizione gravitazionale alternativa. Non assente: intermedia, multilivello.

ALLALUNALALONEH, Performance Mobiligence 2009, Teatro Vascello, Roma ALLALUNALALONEH, Performance Mobiligence 2009, Teatro Vascello, Roma

‘Robotica’ è la parola che viene mentalmente visualizzata. Carne, materia celebrale, hardware e software sono qui connessi e in stretta collaborazione. L’istantaneità è l’elemento preponderante; tutto è sviluppato e prende forma nell’unico momento che si pone di fronte agli occhi in maniera fulminea e irripetibile, quello presente. Il lavoro giunto a compimento si chiude in una apparente stasi rotatoria, richiamando una dimensione di universo posto a metà; un universo ricercato tra l’esperienza terrena - già ben padroneggiata - e quella lunare - ignota, estranea, simulabile. Gli elementi scenici sono encomiabili. La scenografia, rispettosa delle linee-guida delle precedenti puntate, è affidata ancora all’abile Orazio Carpenzano. Disegno-luci e musica, entrambi curati da personalità di rilievo in campo tecnico-artistico, sono cuciti magistralmente in tempo reale sulla quasi-randomica scelta esecutiva dei dati coreografici elaborati dalle danzatrici. Tra queste, tutte comunque interessanti e preparate al lavoro presentato, è doveroso sottolineare la sbalorditiva qualità di movimento di Manuela Ventura, che impone magneticamente il moto oculare dello spettatore. Si spera di vedere presto di nuovo in scena Allalunalaloneh, che di sicuro si distingue, in un momento di stag-flazione culturale quale il nostro, per traiettorie, linee e idee, da molti altri attuali lavori di danza contemporanea, più diffusi ma, sicuramente, meno meritevoli.

ALLALUNALALONEH Performance Mobiligence 2009 Dal 30 Settembre al 4 Ottobre 2009 Teatro Vascello, via G. Carini 78 - Roma

Coreografia: Lucia Latour Architettura: Orazio Carpenzano Sound Live: David Barittonilight Design: Loïc Hamelin Video Live: Cosimo Caroppo Performers Danzanti: Marta Bichisao, Giulia Iafisco, Ilaria Malovini, Emanuela Ventura Assistente alla Coreografia: Marta Bichisao

http://www.teatrovascello.it http://www.altroteatro.it http://www.altroequipe.org

Le foto dell’articolo sono di Riccardo de Antonis

LE PIETRE DELL’ARA PACIS

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LE PIETRE DELL’ARA PACIS “Pietre” - Compagnia Aleph di Gianpaolo Marcucci pubblicato il 17/09/2009 Paola Scoppettuolo porta in scena, all’interno della cornice storicamente unica dell’Ara Pacis, la sua ultima produzione, “Pietre”. «…vorrei proporre una estensione della mia linea di ricerca e, al tempo stesso, una rivisitazione dei temi concernenti il rapporto tra danza e poesia, tra l’esperienza del senso ultimo delle cose in termine di parole e l’esperienza, invece, realizzata nei termini del movimento dei corpi, dei contatti, del fluire continuo di una energia caratterizzata in senso intenzionale». (Paola Scoppettuolo) Una casa; oggetti di famiglia; dei vestiti, uno stendino, una sedia. Una sedia, ma sono due, sono due come il rifugio; e la prigione. E se tutta a un tratto un giorno ti svegliassi all’interno della tua mente, e scoprissi che è una casa? Una casa, ma senza porte, ne finestre. Senza corridoi se non quello della routine, senza scale. Quello che vedi sei tu, è dentro di te, ed è irrimediabilmente immobile, fermo, pietrificato. Non è consentito gridare, né sussurrare. Non è possibile sognare se non d’essere la madre di un feto inesistente. Allora divieni folle, ma non puoi, non è più così facile. La follia è una scusa per privilegiati, Ora se tu a vagare. L’abisso mentale è la tua meta agognata, e la pietra, la pietra che hai dentro, per quanto tu riesca a dimenarti, sta prendendo possesso di tutta te stessa. Pietrificazione, paralisi dell’animo, stasi. Silvya Plath, poetessa morta suicida l’11 febbraio 1963, è di nuovo protagonista della ricerca di Paola Scoppettuolo. Dopo “la carne e il corpo sacro”, attraverso il suo ultimo lavoro Pietre la giovane ma già affermata coreografa romana, vuole raccontare il ristagno e la fissità dell’animo che contiene compresse, sovrapposte e pressate in sé tutte le emozioni, le tensioni, e le paure dell’uomo. Il canale è quello dell’interpretazione danzata della poesia della scrittrice americana “The Stones”. Nel lavoro si intravede lei, il suo dolore, la sua forza, la sua incomunicabilità. Anche il marito Ted Hughes, protagonista ambiguo della vita e della morte dell’artista, è richiamato in scena nel ruolo di molesto carceriere. I costumi sono scenografia e mutano in continuazione, in forte contrasto con lo stato interiore di immobilità che la pietrificazione comporta. Con un lavoro che pone i suoi fondamenti nella tecnica improvvisativa, Paolo Scoppettuolo illumina le magiche vetrate dell’ARA PACIS di una luce che queste non avevano fin’ora mai fatto trasparire. Il compito è lasciato alla tecnica di cinque corpi esperti, che con sapiente atleticità e profonda interpretazione, dipingono il marmo bianco del complesso monumentale.

“Pietre”, Compagnia AlephAbbiamo voluto incontrare la coreografa Paola Scoppettuolo per conoscere più a fondo il suo lavoro; ecco il testo dell’intervista:

Gianpaolo Marcucci/ Ciao, Paola. Nella realtà italiana, tu sei una coreografa riconosciuta ed affermata. Vuoi raccontarci quando e come è cominciato il tuo lavoro? Paola Scoppettuolo/ Il lavoro professionale di insegnante e coreografa è materialmente iniziato oltre 15 anni fa. In realtà da sempre , fin da bambina mi incantavo a guardare le forme , i movimenti delle cose e delle persone, le loro andature e mi isolavo per ore con la musica a costruire il mio mondo immaginario. Non ho scelto di diventare coreografa, è accaduto , come un’esigenza ,come un bisogno irrefrenabile di urlare al mondo chi ero, cosa desideravo, come vedevo la vita.

GM/ Ci sono artisti ai quali ti ispiri o che comunque hanno avuto un impatto importante nella tua visione di danzatrice e coreografa? PS/ Si, sicuramente Alwin Nikolais e Pina Bausch, soprattutto perché nella loro danza ho sempre sentito la forte correlazione tra mente e corpo, cultura e movimento, parola e gesto nella ricerca quasi ossessiva di una gestualità sempre intenzionalmente significativa

GM/ Qual è la tua linea di ricerca? PS/ Sicuramente non è astratta (almeno per ora). Parto sempre da un “tema“ sia esso mitologico, pittorico o poetico. La danza non ha confini per me. La mia ricerca coreografica con i danzatori parte spesso dal laboratori, magari dalla visione di un quadro, dalla lettura di un verso, da una frase che ho sentito per caso; da lì ha inizio un percorso guidato di improvvisazione inizialmente istintuale che successivamente si codifica prende forma e linee nello spazio Assolutamente fondamentale nelle mie creazioni è la musica. Talvolta è il brano musicale stesso che mi aiuta a trovare le linee guida della ricerca, che evoca le mie visioni e le mie idee.

“Pietre”, Compagnia AlephGM/ Hai già lavorato su Sylvia Plath in precedenza, come mai la scelta di riaffrontare il lavoro di questa poetessa? PS/ Su Sylvia Plath non ritorno, Lei è sempre con me! Da quando l’ho scoperta anzi me l’hanno fatta scoprire (circa 3 anni fa) è stata la mia luce intellettuale e spirituale. Ho letto tutte le poesie, i suoi diari, la sua straordinaria biografia e mi sento sempre più vicina alla sua sensibilità di donna\poetessa.

GM/ Di fronte alla profonda crisi culturale che il nostro paese sta affrontando come reagisci in quanto artista? PS/ Continuo a lavorare e creare con pochi fondi ma tanta passione. Nonostante la coreografia sembri essere, in questa società attuale, l’attività più “ inutile “, io credo fermamente che il vero cambiamento verrà da lì, dalla creatività, dal coraggio degli artisti di cercare nuove chiavi per riaprire le porte della sensibilità del prossimo.

GM/ Prima di salutarci puoi ricordare ai lettori quando e dove potranno vedere in scena il tuo spettacolo? PS/ Certamente. Dopo le varie tournèe estive nazionali ed internazionali ed i successi raccolti in questi tre giorni all ‘ARA PACIS ( grazie anche al contributo di Zetema – Roma in scena ) Pietre sarà sul palco il 24\25 settembre alla CASA delle CULTURE (Roma), il 17\18 ottobre al TEATRO ARVALIA (Roma), il 14\15 novembre al TEATRO della DODICESIMA (Roma) e, in date da definirsi , in tournèe in SICILIA , in TOSCANA ed in ROMANIA.

Dall’11 al 13 settembre 2009 ARA PACIS lungotevere in Augusta (angolo via Tomacelli) 00100 Roma (RM) Compagnia Aleph “Pietre” Idea ,Regia e Coreografia: Paola Scoppettuolo Assistente alle coreografie: Stefano Fardelli Danzatori: Stefano Fardelli, Marialuisa Badulescu, Giacomo Galfo, Matteo D’Alessio, Marta Scarsella, M. Cristina Napoletano, Federica Ciavardini, Viviana Cascelli, Viviana Prunesti Musiche Originali: Fabrizio Massoli

RIFUGIATI NEL TEATRO

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RIFUGIATI NEL TEATRO Compagnia Afrodita – Teatro dei Popoli Teatro dell’Orologio - Roma Fino al 20 settembre 2009 di Gianpaolo Marcucci Compagnia Afrodita, "Teatro dei Popoli", Teatro dell’Orologio, Roma pubblicato il 15/29/2009 Straniero. Straniero è solo una parola. Straniero è non sentirsi a casa. Straniero è non essere a casa. Straniero è non essere felice. Straniero è non potersi lavare, e sentirsi dire “che schifo”. Straniero è sognare di tornare dalla propria famiglia, per cinque minuti, cinque minuti e mezzo. Straniero è non essere nessuno. Nessuno. Straniero. Straniero è solo una parola. Al teatro dell’Orologio (Sala Grande), dall’11 al 20 settembre, va in scena il progetto della compagnia Afrodita“Teatro dei popoli” con due atti di uno stesso spettacolo che in realtà sono due spettacoli a se stanti: “Migration Revue” e “Struggimenti–Le Badanti”. Quello che si propone è uno spettacolo che fa pensare, uno spettacolo che muove dentro, e pone il pubblico di fronte a una realtà ignorata, dimenticata. Nel teatro dei popoli di Dani Horowits e Claudia Della Seta, la realtà è più dura e tetra della rappresentazione. Immigrati, clandestini, rifugiati; badanti, barboni, emigrati, «Immaginate la vita più difficile che si possa vivere… quella è la mia vita». La guerra, il dolore, la morte che dispensano i regimi di paesi come l’Iran, l’Iraq, l’Afghanistan, il Bangladesh o tutti gli altri luoghi da dove vengono i protagonisti di Teatro dei Popoli, spingono necessariamente alla fuga. Fuggire dal proprio paese significa però fuggire dalle proprie radici, dalla propria famiglia, dal proprio lavoro, dalla propria cultura, dalle persone che si amano. Essere sottoposti ad un tale peso non dovrebbe risultare ammissibile in un mondo dove esiste un dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Dovrebbe, un verbo inutile, perché i diritti dell’uomo vengono calpestati ovunque, in ogni momento. Ogni volta che un uomo viene cacciato dal proprio paese o è obbligato a lasciarlo, ogni volta che è costretto a viaggiare sotto un camion, o su una barca trasandata, ogni volta che viene rifiutato da un altro paese, ogni volta che 73 rifugiati politici vengono fatti annegare nel mare perché nessuno li vuole, ogni volta che un uomo è costretto a dormire sdraiato accanto alle proprie feci, ogni volta che rischia la vita, per cercare una dignità che non può avere prezzo, ma che si è già perduta nel dolore, quei diritti, i diritti dell’uomo, vengono resi nulli, vengono annientati, insieme alle persone. “Migration Revue” è uno spettacolo che queste cose le vuole raccontare, perché si sappiano, perché la gente non si volti. Non si usano tanti fronzoli, si usano parole semplici, semplici per noi che ascoltiamo ma decisamente meno per coloro che recitano, che per la maggior parte non sono attori, ma rifugiati reali che raccontano le loro storie. Usano torce per illuminarsi il viso a vicenda, e vestono bene, all’occidentale. Sia pur mantenendo una velata ironia, portano alla luce una tematica aberrante, e a ricordarlo sono i bancali di legno sui quali stanno seduti. Dopo di loro è la volta delle donne. Compagnia Afrodita, "Teatro dei Popoli", Teatro dell’Orologio, Roma“Struggimenti–Le Badanti” è il secondo atto/spettacolo della serata. E’ qui abbandonata la sobria e più realistica atmosfera del racconto dei rifugiati. Il sogno è l’incoerenza onirica sono il leit motiv, e l’aria che si respira, è emotivamente meno riservata e più passionale. La storia è surreale, due personaggi molto distanti si trovano a dover aspettare “la barca della salvezza” in un improbabile “stabilivento” destino, su una spiaggia percorsa da spiriti, la notte delle elezioni. Il mare è una presenza che torna, a impaurire e dare speranza. Una figura criptica che parla, in una, tutte le lingue del mondo, si pone nella scena avvolta da un mantello di gomitoli, presagendo una terza guerra mondiale, l’ultima. Ad accompagnare l’attesa evolutiva (o forse involutiva) delle due protagoniste, vi è il passaggio di alcune donne, le straniere, che si manifestano rappresentando le loro vite. Qui è mostrato come l’essere straniero è una condizione che può appartenere a chiunque. La badante russa che ricorda con malinconia il suo passato di ballerina prima del crollo del muro; l’ironica colf filippina che spedisce videomessaggi al figlio lontano e raccontandogli di come si sia fatta una nuova vita; l’attrice italiana che cerca fortuna in America, dove le parole spaghetti, pizza e mandolino sono etichette dalle quale non ci si può districare; e infine la profuga straziata dalla guerra che imprigionata per settimane è arrivata a nutrirsi di se stessa. Queste esperienze si intersecano l’una dentro l’altra, dando respiro al dialogo irrazionalmente coerente tra le due donne, che porta ad un percorso di redenzione e rinascita come figure animali. Migration Revue e Struggimenti – Le Badanti, sono insieme uno spettacolo da vedere, da sentire, per conoscere, e non dimenticarsi dei quella parte del mondo che non è illuminata dallo stesso nostro sole.

Abbiamo incontrato la regista Claudia Della Seta; alleghiamo l’intervista da noi svoltale:

Gianpaolo Marcucci/ Il progetto “Teatro dei popoli” è senza dubbio un progetto di notevole importanza sociale e culturale. Ci vuoi parlare di come è stato concepito? Claudia Della Seta/ “Teatro dei popoli 1” fu il primo piccolo festival che guardava alle opportunità che ci offre l'obbligo di conoscerci l'uno con l'altro, in quanto popolo della terra, e fu presentato all'Auditorium nel 2007. Comprendeva tre progetti nati in Israele che guardavano all'integrazione di attori e tecnici italiani, arabi ed ebrei. Il secondo anno abbiamo voluto guardare la nostra Italia e attingere all'immenso patrimonio che ci offrono i nostri immigrati. Patrimonio di anime e di storie, un vero forziere pieno di tesori. In tempi in cui il denaro (che fa girare il mondo) manca si fa a mio parere più evidente l'importanza dell'altra nostra grande sorgente di energia, comune a tutti, l'amore.

GM/Come nasce la compagnia Afrodita? CDS/ Afrodita Compagnia nasce nel 2003 con la produzione "La Casa degli Spiriti" da Isabel Allende al festival Enzimi di Roma, come emanazione femmina del teatro Arabo Ebraico di Jaffa, di cui io stessa, emigrata in Israele nel 1994 sono socio fondatore (in quanto attrice immigrata).

GM/ La scelta di utilizzare protagonisti reali delle storie di rifugiati che si raccontano negli spettacoli è una scelta coraggiosa e profonda. Cosa puoi dirci in merito? CDS/ La forza interiore dei nostri protagonisti diventa luce sulla scena. Carisma. Il carisma, cioè la capacità di essere ascoltati, è ciò che l'attore cerca sempre. A volte lo trova, a volte no. Volevamo mettere in evidenza la luminosità di queste persone, non soltanto fare un "festival della sofferenza". Credo che loro questa luce e questa potenza la emanino non meno degli attori professionisti. GM/ Quali sono le vostre prossime tappe teatrali? CDS/ Vorremmo riprendere il nostro cavallo di battaglia,"La Casa degli Spiriti", inserendo i nuovi attori-rifugiati-badanti, insieme con attori, nel frattempo diventati grandi star del nostro cinema, come Alba Rohrwacher, che fece con noi, nel 2003, proprio all’Orologio, il suo debutto teatrale.

Dall’11 al 20 settembre 2009 Teatro dell’Orologio (Sala Grande) Via dei Filippini, 17 a 00100 Roma

Compagnia Afrodita: “Teatro dei Popoli” “Migration Revue”,di Dani Horowitz Da Yehuda Amichai, Slawovitz Mrozek, Israel Pinkas, Dimitri Verhulst Con Muhammad Ali, Azizallah Haidari, Ali Muhammad, Hasan Mahbub Rasul Hasan, Jim Mc. Manus, Mauro Marino, Olek Mincer, , Stefano Viali ”Struggimenti-Le Badanti”, di Claudia Della Seta Ispirato a “Le straniere” di Yossefa Even Shoshan Regia di Claudia della Seta e Glenda Sevald Con Rossella Ascolese, Maria Teresa Campus, Claudia Della Seta, Sofia Diaz, Valentina Kit, Annalisa Lanza, Mitrie Mundo, Moni Sultana.

“HOMO TURBAE”

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“HOMO TURBAE” Mòra, compagnia di ballo della Socìetas Raffaello Sanzio Torino - Teatro Astra - 25 e 26 giugno 2009 di Gianpaolo Marcucci Socìetas Raffaello Sanzio, Mòra, "Homo_Turbae" (photo Federica Giorgetti) pubblicato il 25/06/2009 Claudia Castellucci inaugura con lo spettacolo “Homo Turbae” la nuova compagnia di ballo della Socìetas Raffaello Sanzio “Mòra” al festival delle colline Torinesi. Una scena, sovrastata dalla città che le raccoglie tutte, invita timidamente un giovane uomo a tracciare i suoi confini volumetrici. Questo, come una longilinea scaglia di grafite, lascia precisi quanto talvolta casuali segni neri sulla tela. La purezza è nell'essenzialità di un gesto, significante spogliato del significato, la cui identificazione è possibile solo per un artificio culturalmente antropologico. Un uomo che misura il suo spazio. Con l'iterazione del percorso, il pacato sussurro della timidezza si tramuta in elegante furtività, mentre la ricerca di aderenza fisica alla metrica sonora diviene quasi ossessione. Socìetas Raffaello Sanzio, Mòra, "Homo_Turbae" (photo Federica Giorgetti)Ossessivo è il rifugio musicale di un organo che non permette riposo, come ossessivo, e forse irrimediabile, è l'isomorfismo sinestetico che ne scaturisce. Poi l'uomo rivela il suo volto. Sono otto mantelli a tradire il silenzio. Non più un singolo individuo, un singolo corpo, ma due, tre, sei, otto, sempre più uomini misurano la scena. Un disegno indistinto, una folla. Come nella rivelazione dell'inesistenza dei triangoli di Kanitza, l'occhio viene colpito da un euforico desiderio di chiarificazione. Inganno sottile. La folla amorfa diveniva un sol'uomo grazie alla carta della perfezione. Allora tutto cambia, e i mille volti neutrali si tramutano a loro modo nel ghigno empio del genio maligno descritto da Poe. Le parole del racconto di quest’ultimo “L’uomo della folla (1840)”, ombra del lavoro insieme all’acquarello dell’architetto Charles Robert Cockerell “Il sogno del professore (1848)”, risuonano così nelle relazioni fisiche dei danzatori, coreuti esperti, che mostrano nella coralità dell’immagine, una calma ed invidiabile atleticità. Socìetas Raffaello Sanzio, Mòra, "Homo_Turbae" (photo Federica Giorgetti)La scommessa che Claudia Castellucci, fondatrice della compagnia Socìetas Raffaello Sanzio, fa con il corpo dei suoi danzatori, è una scommessa onerosa. Homo Turbae, è uno spettacolo che non compatisce imperfezioni. Uno spettacolo elevato, che seppur formalmente richiama ad alcuni dei precedenti lavori della Stoa, risulta distanziarsi in maniera totale da questi nel rapporto con il corpo e con l'errore. Possiede dentro di se una ricerca di altra natura. Non manca comunque la firma del fratello Romeo, che ha collaborato con Claudia all'ideazione di scene, costumi e luci. Mòra, la nuova compagnia di ballo della Socìetas Raffaello Sanzio, ha il significato del tentativo inserito all'interno della sua denominazione. La mòra, che da vita al ballo, è infatti la durata più piccola della percezione, necessaria alla memoria per collegare tra loro i singoli istanti della visione e dell'ascolto. Homo Turbae ne è il primo esperimento.

In scena: “Voi, ballerini, atleti del tempo; seguaci di una struttura spirituale, cui solo la metronomia del ritmo è adeguata a tentarne l'accesso; esperti di un'interpretazione essenziale, cui solo l'identificazione totale tra corpo e io esprime.” (Claudia Castellucci) Torino - Teatro Astra - 25 e 26 giugno 2009

Mòra, compagnia di ballo della Socìetas Raffaello Sanzio HOMO TURBAE direzione: Claudia Castellucci orchestrazione musicale: Scott Gibbons luci: Romeo Castellucci maestro di prove: Eugenio Resta con: Alessandro Bedosti, Gloria Dorliguzzo, Rob Fordeyn, Antonella Guglielmi, Beatrice Mazzola, Benedetta Mazzotti, Andrea Sassoli, Marco Villari

Le foto dell’articolo sono di Federica Giorgetti.

INTERVISTA A DINO VERGA

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INTERVISTA A DINO VERGA di Gianpaolo Marcucci Duetto

pubblicata il 17/06/2009 Coreografo e direttore artistico della compagnia Aton – Dino Verga Danza, Dino Verga è uno dei più importanti punti di riferimento della “tecnica Cunningham” in Italia. Dopo aver stretto una duratura collaborazione con il Cunningham Dance Studio e la Merce Cunningham Foundation di New York, nel 2004 Verga è riuscito ad acquisire i diritti di rappresentazione di “Cross Currents”, portando così il suo gruppo a divenire la prima compagnia in Italia cui è stato concesso di inserire, nel proprio repertorio, una coreografia originale di Merce Cunningham. Oggi, Dino ha al suo attivo oltre cento coreografie realizzate per Aton, grazie alle quali ha effettuato negli scorsi anni numerose tournées in Italia e all’estero. Le sue creazioni compaiono nel repertorio di vari festivals nazionali ed internazionali, svolti in locations d’eccezione, fra cui il Malta International Arts Festival, il Salone della Danza di Parigi ed il Festival Internazionale di Cartagine (Tunisi). All'attività di coreografo e direttore artistico affianca, ormai da anni, quella di insegnante di danza contemporanea, collaborando, in qualità di docente, con il Teatro San Carlo di Napoli e l’Accademia Nazionale di Danza di Roma. Dino VergaAbbiamo intervistato Dino Verga dopo il suo spettacolo, preparato appositamente per gli allievi dell’Accademia Nazionale di Danza, in occasione della rassegna Portrait d’Inspiration.

Gianpaolo Marcucci/ Ciao, Dino. Nella realtà italiana, tu sei un coreografo riconosciuto ed affermato. Vuoi raccontarci quando e come è cominciato il tuo lavoro? Dino Verga/ La mia passione per la coreografia è stata sempre una vera e propria vocazione, così come la spinta ad avere una mia compagnia. Mi sono accostato alla danza per questo motivo. Ho iniziato a studiarla molto tardi, avevo 17 anni, con un passato da vero topo di biblioteca, senza alcuna forma atletica. Mi affascinava, tuttavia, la possibilità di poter creare un codice di movimento, così come di poter comunicare dei pensieri e delle emozioni attraverso il corpo. La mia carriera di danzatore spazia dal balletto, alla danza contemporanea, passando per il jazz televisivo, il flamenco e il katak indiano, ma il mio obiettivo è sempre stato quello di fare ciò che faccio oggi, non di essere sul palcoscenico. Ho composto la mia prima coreografia dopo soli due anni che studiavo danza, e la mia prima compagnia appena ventunenne. GM/ Quanto influirono, allora, il periodo di formazione sostenuto a New York, come d'altronde la tecnica Cunningham, e quanto oggi queste ti spingono, nella creazione delle tue coreografie? DV/ Il mio periodo di formazione newyorkese continua tuttora, con i miei soggiorni annuali, di circa un mese, nella Grande Mela. Lì, oltre a studiare, vedo tantissimi spettacoli, parlo con danzatori e coreografi… insomma, una vera full immersion. Ovvio, penso sia inevitabile che l’esperienza americana abbia avuto delle ripercussioni sul mio lavoro. L’incontro con Cunningham, il suo mondo, la sua poetica, la sua tecnica, ha molto ampliato la mia concezione di creazione coreografica. All’epoca della mia prima volta lì, nel 1994, ne fui quasi folgorato, tanto che forse dapprima ho quasi inconsciamente tentato una “imitazione” del suo lavoro. Oggi, penso e credo che di Merce ce ne sia uno solo, e che sia abbastanza inutile riproporre dei suoi percorsi attraverso il mio lavoro. Mille BaciGM/ Cosa ricerchi, nel tuo lavoro di coreografo? DV/ Cerco di essere me stesso. Di comunicare un pensiero, un concetto. Che sia una riflessione su quanto accade nel nostro mondo di oggi, o una pura idea di bellezza di corpi danzanti. GM/ I tuoi ultimi spettacoli si discostano molto dalle tue prime creazioni. Hai introdotto una drammaturgia più profonda ed elaborata, ed hai aggiunto elementi di ricerca che tendono all'apertura nei confronti delle altre forme d'arte. Ci vuoi parlare di questa evoluzione della tua attività artistica? DV/ Io non mi sono mai fermato ad un “marchio”, una formula di spettacolo che funzionasse e che mi desse credibilità. Ad ogni nuova creazione, mi avventuro in percorsi da me ancora non battuti, anche col rischio di arrivare ad un risultato non soddisfacente. Ma, come dicevo, sento il mio lavoro come una vocazione, e pertanto con esso voglio crescere, anche con l’incognita di una caduta. Devo riconoscere che la possibilità di fare tutto questo mi è data da una compagnia di danzatori fantastici, per abilità tecnica, sensibilità artistica e fedeltà al mio lavoro; e, per questo, devo citare assolutamente almeno tre dei miei danzatori storici, che lavorano con me da molti anni (e intendo molti: tredici, quindici e diciannove..), che sono Stefania Brugnolini, Antonella Pugliese, e il mio braccio destro Luca Russo, vere e proprie colonne portanti nei miei processi di creazione. Oggi, sono molto interessato ad arrivare al pubblico attraverso un multi-linguaggio, un’evoluzione del mio modo di comporre uno spettacolo attraverso diversi strati di lettura, fruibili a seconda del livello di consapevolezza culturale dello spettatore. La danza deve essere di tutti, e arrivare a suo modo al cervello, o al cuore, di ognuno. GM/ Le tue attività non si esauriscono comunque nella coreografia, spaziano infatti all'interno di altri ambiti, come ad esempio quello della formazione. Come nasce la tua passione per l'insegnamento, e come la coltivi? AzzurroDV/ Il mio desiderio di insegnare, e di trasferire le mie conoscenze, è nato in maniera prepotente quando per la prima volta, a New York, ho scoperto la tecnica di Cunningham, che qui in Italia, nella sua purezza, era pressoché sconosciuta. A tutt’oggi non capisco come possa essere avvenuto che nessuno, prima di me (e Luca Russo), si sia preso l’onere di divulgare nel nostro paese questo linguaggio, senza apportarne delle personali modifiche. Io credo che un allievo debba, nella propria formazione, conoscere almeno una delle grandi tecniche contemporanee codificate (Graham, Limòn, Cunningham), per poterne meglio apprezzare le contaminazioni e le elaborazioni. È il lavoro che da quindici anni faccio in Italia, affiancandolo a workshops del mio personale lavoro di elaborazione stilistica. Da dodici anni insegno alla Scuola di Ballo del Teatro S. Carlo di Napoli, sono stato docente all’Accademia Nazionale di Danza, la Scuola del Teatro dell’Opera di Roma ha da poco richiesto una mia collaborazione. E poi, corro su e giù per il nostro Belpaese a tenere stages, seminari e lezioni, senza risparmiarmi mai. GM/ Oggi, in Italia, la danza vive un momento di profonda crisi. Ovviamente questo è da considerare in linea con la crisi economica, ma sopratutto culturale, che il nostro Paese sta affrontando. Essendo tu un coreografo affermato, come vedi questa situazione, e cosa ti sentiresti di dire ad un/a giovane coreografo/a che si affaccia sulla scena in questo momento? Fiori MalatiDV/ La crisi culturale, oltre che economica, purtroppo coinvolge il mondo intero, non solo il nostro Paese, e certamente in Italia un governo che non supporta l’arte rende più difficile la sua sopravvivenza. Ma è questo il momento di tirare fuori le unghie. Nessuno mai è riuscito ad affossare la spinta innata a comunicare, a collegarci, a creare. Siamo molto indietro rispetto a quanto accade nella ricerca artistica nel resto del globo, ma la sensibilità e l’inventiva tutta italiana, che ci contraddistinguono, non possono essere messe a tacere. Bisogna lavorare, lavorare, lavorare. Anche nelle difficoltà, senza soldi e con poche opportunità di sbocco. Ai giovani posso solo dire di lasciare da parte il trend superficiale legato all’apparire; nell’arte bisogna avere solo il senso di Estetica. Quella con la “E” maiuscola. Ma il balzo da fare è grande.

GM/ Prima di salutarci, vuoi ricordare ai lettori quando e dove potranno vedere in scena i tuoi spettacoli, e magari darci qualche anticipazione su qualche tuo prossimo lavoro? DV/ Saremo in scena con la mia compagnia “Aton – Dino Verga Danza” dal 16 al 19 e dal 27 al 30 giugno al Teatro Furio Camillo di Roma con il mio nuovo lavoro “Backline (for seven)”. Una formula di spettacolo/studio offerto al pubblico con un aperitivo alle 19, in orario pre-estate romana. E’ un lavoro astratto, che cambia programma ogni sera, una sorta di evento non ripetibile… Difficile dire altro in poche parole. E poi, come io sottolineo spesso, per fortuna la danza è un’arte muta, che parla direttamente al nostro dentro.

“BACKLINE (FOR SEVEN)” COMPAGNIA ATON - DINO VERGA DANZA Coreografia e Regia: Dino Verga Compagnia/ Produzione: Aton - Dino Verga Danza Cast: Stefania Brugnolini, Veronica Cionni, Luca della Corte, Valeria Gargaro, Anna Marinelli, Angelo Petracca, Antonella Pugliese, Luca Russo

Dal 16 al 19 e dal 27 al 30 Giugno 2009

Teatro Furio Camillo Via Camilla, 44 00181 Roma Tel. 06.7804476 http://www.teatrofuriocamillo.it

Foto di Marco Mancini