TDC E' UN portale CHE vuole dare voce ad un nuovo modo di fare critica. Una critica che non attacca, una critica che respira, che si riconosce in ciò che vede. Consapevolezza, introspezione ed umiltà sono le parole che descrivono tale lavoro di ricerca. Perché fare critica non sia più scrivere solo di teatro, ma divenga finalmente scrivere per il teatro

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sabato 26 febbraio 2011

Pasolini Superstar!

La Compagnia CK TEATRO Colossal Kitsch Teatro presenta il progetto Superstar.

Dopo l’introduzione di Delitto Pasolini, si è finalmente aperto il sipario sulla interessante interpretazione a ritroso del romanzo Petrolio di Pasolini, ultima fatica incompiuta a causa della morte dell’autore.

Per questo motivo il testo, come lo spettacolo che da esso attinge in modo vivo e creativo, si articola in Appunti, ognuno con un sintomatico titolo: sono frammenti, intuizioni preveggenti, di un puzzle da ricostruire tramite indizi legati ad un unico filo conduttore.

A partire da cinque frammenti emblematici si snoda il percorso attraverso la Storia delle stragi della politica italiana: figura chiave onnipresente è l’ingegner Carlo Valletti, che si duplica sulla scena, divisa contemporaneamente a metà in uno spazio recitato dal vivo e in altro filmico. Tale duplicità strutturale rimanda a più di una possibile interpretazione: è lo sdoppiamento del protagonista di Petrolio, così come lo sdoppiamento di Pasolini, che profetica voce narrante si chiede e si risponde: “La vita è uno spettacolo? – Sì, noi stiamo dando uno spettacolo”.

I primi quattro Appunti ritraggono l’ingegner Carlo Valletti, così potente da avere più di un posto riservato in sala, come interlocutore privilegiato di altrettanti personaggi che hanno condizionato gli eventi di quella Storia che riguarda noi tutti.

Nell’Appunto 36 (gli Argonauti), incentrato sull’omicidio del Presiedente dell’Eni; nell’Appunto 71 (il Merda), sull’omicidio Moro; nell’Appunto 65 (Giardino Medioevale) sulla strage di Bologna; nell’Appunto 120 (i Godoari), sull’omicidio del giudice Falcone, Valletti accetta ogni volta le proposte eccellenti che gli vengono fatte, mentre il suo alterego Karl si cimenta in rapporti sessuali morbosi.

È difficile decidere su quale dei due lati soffermarsi per restare un po’ meno tristemente “coinvolti”. Del resto, il perfetto specchio comunicativo evidenzia lo stesso messaggio finale: connivenza, compromesso, altrui e auto-assoluzione, in un’atmosfera di generale degrado, morale e fisico, che provoca nello spettatore un crescendo di disgusto per le scene rappresentate.

Ultimo indizio, in logica conseguenza, è l’Appunto 32 (Prima fiaba sul potere) dove Valletti recita un recente discorso inaugurale al potere, mentre nel filmato l’ultimo omicidio della serie: quello di Pasolini, che dopo essere stato brutalmente picchiato, ascende al cielo a braccia aperte, martire della Storia italiana.

L’ultima parola è giustamente la sua: esce dalla cabina di sguardo narrante al ritmo dell’Inno d’Italia. Così ritorniamo amaramente al tempo presente.

Nei saluti finali la dicotomia si ripresenta nei due soli attori sulla scena: il regista Fabio Morgan, che ha impersonato un Carlo Valletti sempre uguale a se stesso, contrapposto ad Emiliano Reggente, artefice delle sorprendenti trasformazioni negli altri diversi personaggi.

Interessante l’uso registico di un bombardamento contemporaneo di dialoghi ed immagini scioccanti, che sembrano voler spronare a ricostruire insieme gli indizi pasoliniani sulla malattia morale della pratica politica italiana.

Questo spettacolo, come del resto Pasolini, non ha prove, ma solo il coraggio intellettuale della ricerca della verità. Spettacoli come questo dovrebbero essere sempre più incoraggiati, anche sull’esempio dell’icona Pasolini, in cui arte e vita si sono intrecciate inscindibilmente.

Oggi vale forse ancora di più il monito “politicizziamo l’arte”, per risvegliare le coscienze.

Ludovica Marinucci

SUPERSTAR

da Petrolio di Pier Paolo Pasolini

regia: Fabio Morgan

scritto da: Fabio Morgan, Leonardo Ferrari Carissimi, Andrea Carvelli

attori: Fabio Morgan, Emiliano Reggente

produzione: CK Teatro

mercoledì 23 febbraio 2011

Rosas - En Atendant

Un uomo. Una scena. Uno strumento a fiato perpetuo. Musica che si materializza, suoni limpidi, pregni di eleganza, di nostalgia. L’armonia delle note crea una nuova essenza: corpi che danzano. Come all’origine del tempo, corpi soli e distanti, ogni movimento è a sé ed esclusivamente per sé. Una linea di confine di cui diffidare, da cui stare lontani: la distanza creata tra chi vive e chi osserva. Come Stelle distanti , figlie uniche della propria arte, esili si alternano in scena, esiliate dall’universo emotivo. A tratti si sfiorano, a tratti si compiangono. È l’inizio della Crescita. Cambia la prospettiva dello spazio, i corpi aumentano, si gonfiano di energia: Ci si inventa il contatto. Il vigore dei movimenti spezza il fiato, asciuga gli occhi. La vitalità ammonisce la luce con la tempra di movimenti lancinanti. È un crescendo. Progressivo aumento d’intensità. Evoluzione di vita: da singolo a collettivo.

La scena è preda dell’amalgama di più figure. Unite, complementari, ambasciatrici di unità. I corpi diventano il corpo. Cambia il ritmo delle note, la proiezione dell’ombra, l’impeto dell’esistenza. Il contatto diventa compenetrazione. La pelle perde il colore di chi la indossa. Si resta nudi con la propria anima. Seni, ventre, fallo. La perfezione dell’arte di vivere. La luce si ritira lievemente. Non esiste morale, ma carne e unione. Segni di ribellione. Sentieri dell’animo percorsi da belve affamate di passione, che si comprendono, si riconoscono, si bramano. Non c'è nulla da fare, nella danza di Anne Teresa De Keersmaeker, l'esistenza è equilibrio e il tutto è sempre più che la somma delle parti.

En Atendant è uno spettacolo magico, in cui si uniscono l'eteree sonorità della polifonia trecentesca e il puro movimento di una tecnica che è nata per dire il vero. Rosas, sostenuta dalla bellezza assoluta di una sala Petrassi nuda e illuminata a giorno, porta in scena qualcosa di davvero unico, dove la purezza della forma dialoga con l'armonia delle sensazioni e dove l'inizio e la fine non sono mai più che una coppia di passi accennati. Inutile dire che di questa danza, nei periodi di magra culturale di cui Roma è paradossalmente ricca, se ne sente spesso la mancanza.

Irene Corradino

Programma del Festival

L’ultima volta che vidi mio padre

Dramma musicale animato della Societas Raffaello Sanzio/ Chiara Guidi- Scott Gibbons

In una giustificata penombra, cinque attrici svuotano cassette, spostano oggetti: fanno rumore. Sarà il ritmo della narrazione.

In ogni momento, il vero attore protagonista è il suono, attraverso la rielaborazione elettronica di parole, di sussurri, di gesti, di passi compiuti, di tonfi; si avverte persino il suono del frusciare dei vestiti, da eleganti damine, delle attrici: indizio di una proficua attenzione ai particolari.

È la musica a delineare il disegno animato sullo sfondo. Al ritmo del violoncello, della celesta, delle voci bianche e di quelle delle attrici, il video racconta l’angoscia di un bambino alla ricerca del padre: si è proiettati nel suo mondo interiore, inconscio, continuo ribollire di immagini con una trama in costruzione. Lo riusciamo a vedere, perché sentiamo, facendolo nostro e proiettandolo sullo schermo, il sentimento delle parole.

Come nel bel mezzo delle fiabe che ci raccontavano da bambini, sentiamo la visione di peripezie che costruiscono forme archetipiche.

In un continuo altalenarsi tra immagine impressionista ed ombra delineata, tra suono espressivo e silenzio assordante, Chiara Guidi e Scott Gibbons riescono a creare una tensione emotiva di sorprendente coinvolgimento.

Valorizzando ogni singolo componente, questa composita orchestra stimola ad una narrazione, a tratti onirica, che proiettata sullo sfondo filmico, diventa specchio anche dei nostri frammenti emotivi, delle nostre storie individuali.

La creatività di questa compagnia ne stimola quasi altrettanta nello spettatore, che riorganizza la sua emotività ricostruendo la sua fiaba a partire dall’esempio di un bambino alle prese con un sentimento estremamente condiviso e, quindi, condivisibile.

È questo che contraddistingue un’opera artistica ben riuscita: la capacità di raccontare, a più livelli e con il linguaggio più convincente, una storia, tanto generale da poter essere messa in comune e compresa, pur tenendo conto delle peculiarità individuali.

Ludovica Marinucci

lunedì 21 febbraio 2011

LA PRIMA VOLTA DEL BALLETS C. DE LA B.

Primero erscht. A sipario aperto, i danzatori aspettano noncuranti che il pubblico si accomodi. Su invito del clarinetto, saltano tutti sul tappeto verde: il tappeto dei ricordi.

Un uomo ordina di muoversi ai mobili antichi di un salotto di famiglia. Siamo proiettati nel potenziale inconscio di ognuno di noi. Il tempo è quello del sogno: si percepisce a tratti, nella pendola simulata dalle lunghe gambe di una danzatrice, aggrappata ad un armadio.

Ognuno ha la sua storia da raccontare, intrecciando voce e gesto. Le prime volte … le abbiamo avute tutti. Chi guardare? In chi immedesimarsi? Su e giù per il grande tappeto, sono tutti affaccendati nel ricordare la loro infanzia.

Si buttano a peso morto, si coprono gli occhi, tremano. Ora respirano affannati a ritmo di musica, in una danza del lamento; ora si chiudono in uno stretto cerchio e, scoperti, sorridono con un lampo malizioso negli occhi, come bambini, che hanno rubato il barattolo di marmellata dallo scaffale più alto.

È un film d’altri tempi, in cui psicologia, surrealismo e comicità sono tutt’uno. Se salti fuori dal tappeto la musica si interrompe. Il flashback si ferma, ma con un nuovo salto dentro al tappeto il sogno può ricominciare.

Il venerdì ci si deve occupare delle cose importanti, prendersi cura della famiglia … persino il numero dei passi da poter fare è importante. Ma all’educazione tradizionale subentra prepotentemente il sogno di quello che avremmo voluto fare. Il salotto dell’infanzia viene continuamente scombussolato, in un sistematico disordine, che è specchio del caos insito in ognuno di noi. È la nostra memoria a selezionare i fatti, creando il passato, l’infanzia.

È un continuo di capovolte, giri, svenimenti per la troppa fatica, in un stato delirante e quasi ipnotico. Le urla risvegliano i fantasmi. Si alterano i fatti, sognando di vivere momenti, più intesi, della vita di qualcun altro. Bisogna nascondersi sotto al tappeto verde per avere un attimo di pace. Ma vince la curiosità, che spinge a sbirciare dal nascondiglio.

Al ritmo di una suadente voce che proviene dall’armadio, si rimettono le cose in ordine. Alla fine è tutto solidamente accatastato. E anche l’ultimo cassetto dei ricordi può essere chiuso.

In questa performance i danzatori, eterogenei per stile, alternano energicamente gesto, parola e canto, accompagnati dalla musica klezmer, appositamente composta dal clarinettista, che, onnipresente sulla scena, li guarda con la serafica saggezza di chi sa quanto siano necessarie le nostre esperienze di crescita, con relative peregrinazioni mentali.

Proprio questo hanno in comune i danzatori: la loro individualità, che sono disposti a mettere a nudo, in uno stato di confusione onirica, creando una sottile intimità con gli spettatori.

La forza di questa compagnia sta proprio nel saper valorizzare le potenzialità creative di ogni danzatore, in un percorso coreografico individuale, che finisce inevitabilmente per stimolare il riconoscimento in un altro individuo: la visione panoramica, che ci forniscono, consente lampi di intuizione interiore nello spettacolo della nostra vita.

Ludovica Marinucci

martedì 8 febbraio 2011

TRANSAQUANIA – INTO THIN AIR

In un remoto passato che potrebbe essere il nostro futuro, alberi incappucciati viaggiano senza meta apparente. Sono larve, larve di una specie costretta a mutare. Una creatura nasce. Poi tutte le altre. Cordoni ombelicali escono dagli occhi e vanno a porsi come prolungamento di una bocca negata. Budelli tubulari, becchi mollicci che vengono usati per nutrirsi, per succhiare dall’altro la linfa vitale. Corpi morti fanno il loro ingresso. E’ cibo, ma non soddisfa. Si torna così a succhiarsi a vicenda, stavolta con cieca fame, e volontà premeditata. La reazione è esplosiva. I corpi collidono, si agitano, si mischiano agli altri. In un orgia di corpi morti e vivi, un mostro con due corpi attaccati per la testa, si dimena senza fine. E’ l’odio per la propria nemesi. Un cuore comincia a formarsi, un nuovo organismo da cui nascono, mano mano, nuovi feti primitivi. Il cambiamento provoca un dolore insopportabile. Le pance hanno spasmi viscerali, si tentano urla strazianti; respirare è difficilissimo. E’ l’evoluzione di una specie nata malata.

Spettacolo creato per l’evento unico in tutto il mondo svoltosi nell’aprile 2009 nella Laguna Blu islandese, Transaquania, è un’esperienza emotiva molto forte. Un viaggio all’interno della propria genesi cellulare. A dare il proprio contributo nella realizzazione della valida e visibilmente ricercata coreografia, oltre alla compagnia nazionale islandese, tre artisti di fama mondiale, Erna Ómarsdóttir, Damien Jalet e Gabríela Friðriksóttir che creano all’interno dell’auditorium un atmosfera davvero unica (si può solo provare ad immaginare come sarebbe stato poter vedere Transaquania nella cornice surreale della laguna blu). Con uno sprazzo di orgoglio nazionale, si è felici di sapere che c’è un italiano che ha collaborato alla realizzazione dello spettacolo: Gianluca Vincentini, diplomato al Laban Center, direttore delle prove dell’Iceland dance Company, dimostrazione che, come per molte altre discipline, i nostri talenti, seppur non apprezzati in patria a causa di una politica sempre più sfavorevole nei confronti della cultura (ma potremmo dire anche nei confronti dell’intelligenza e della sensibilità) sono all’estero sempre più quotati.

Lo spettacolo Transaquania – Into thin Air, è uno spettacolo vivamente consigliato.

Programma del Festival

Gianpaolo Marcucci

lunedì 7 febbraio 2011

LES SLOVAKS. JOURNEY HOME

Journey home. Sei sedie sullo sfondo e un tavolino in legno collocano subito in una dimensione familiare. Questo è tutto l’arredamento di cui hanno bisogno i cinque danzatori slovacchi. In fila come soldati, iniziano a danzare uno alla volta, ognuno col suo stile. Gli altri sono in una vigile attesa.

Si guardano complici, si sfiorano, si prendono in braccio. Si fiutano, si inseguono, vanno a caccia come un branco di lupi.

Cosa cercano? La danza. Il movimento che utilizza tutte le giunture e i muscoli del corpo, tutte le potenzialità gestuali e creative. Corrono, saltano, camminano a quattro zampe. Danzano una musica comune, divertiti, divertenti e complici.

Si abbracciano in un circolo di solidarietà e folclore. È questo che li unisce: le loro radici, la loro cultura comune.

Tutti vogliono il cappello bavarese. Chi lo porta sembra essere il re: gli altri stanno in ginocchio. Ma un suddito insubordinato si mette un altro cappello e, ironicamente provocatorio, sfila davanti al re. Lo imita, lo prende in giro, in una danza appassionata. Corrono avanti ed indietro sulla scena, per vedere chi arriva primo. Il suddito ruba il cappello al re.

Si sente forte la tradizione, che non vuole però essere preservata: viene trasformata attraverso le singole esperienze, reinterpretandola in base alle diverse personalità dei componenti. Così si crea la “nuova danza tradizionale”, che invita ad andare oltre alle regole, da cui pure si proviene, per trovare il piacere della propria danza, dovuta alla musica interiore.

La musica del violino e del coro dei danzatori è tutto ciò che serve per ritrovare la dimensione comune, corale. Cantano canzoni tradizionali e così ritrovano la complicità che li lega, che li fa essere così attenti l’uno all’altro.

Le loro nitide improvvisazioni sono il frutto di una struttura comune, di un percorso aperto, che porta che ricostruire i pezzi di un’unica performance, la cui struttura è delineata dall’amicizia, dall’energia, dal ritmo, dal sudore, dallo stesso modo d’intendere la danza. Ogni assolo prepara quello successivo. Ogni gesto, disegnato nel dettaglio, pur essendo improvvisato, ha senso e prevedibilità nella forma complessiva dello spettacolo. Proprio come ogni singolo pezzo di un puzzle, che in virtù della sua silhouette, occupa soltanto un certo posto prefissato e si lega ad un altro, in modo univoco.

Ogni danzatore è attento spettatore dell’altro, che a sua volta non desidera che sorprendere. Si è doppiamente coinvolti: ogni gesto è individuale e collettivo. Il pubblico assiste a questo gioco complice di rimandi ironici in una lingua, che pur essendo straniera, riesce ad essere compresa. Questa è la vittoria della danza. Certo, una danza di alto livello, che si è posta un traguardo difficile: l’universalità del linguaggio, raggiunta partendo dalle personalità individuali di un microcosmo culturale.

Lo spettacolo si chiude con una corale danza di carattere. Tutti seduti. Le luci si spengono, una ad una. Buio.

Gli Slovaks, dopo aver appreso e compreso più linguaggi in giro per il mondo, si divertono ora a raccontarci le loro storie, che non si allontanano mai troppo da casa. Amano la danza, e forse per questo, riescono così bene a dircelo.

Programma del Festival

Ludovica Marinucci

domenica 6 febbraio 2011

PESO E LEGGEREZZA: LE ACROBAZIE DEI MIGRANTI

Ai migranti. Un prolungato buio prepara la vista del pubblico; uno scrosciare d’acqua invoglia all’ascolto. Sei giovani danzatori compaiono a più riprese sulla scena: sono giocolieri della migrazione. Portano con sé pesanti bauli vuoti, da cui escono ed entrano con facilità, come fossero le porte delle case materne. È una danza lenta, faticosa: si sente tutto il peso dei loro 320 chili. Camminare a testa in giù, è un buon modo per vedere dall’altra prospettiva: quella di chi vive una vita in un incessante movimento.

Se qualcuno si ribella o si smarrisce, viene categoricamente ripreso, con un lazzo. Non si avanza, se non c’è un movimento collettivo. L’incontro di atomi liberi diventa facilmente uno scontro. Si ondeggia, si cade, ci si rialza, in questa danza di ricerca.

Ci si ferma soltanto per dormire, ma è una vera e propria acrobazia trovare il proprio posto. Su queste casse, che ricordano troppo spesso delle bare. Sono preoccupati questi circensi: se non riuscissero a fermarsi?

La migrazione diventa movimento in sé. I migranti, come acrobati della vita, se necessario, si buttano nel vuoto, da sempre più in alto. L’unica speranza è che qualcuno li riprenda al volo. Ecco, un invito alla fiducia.

Sono un esercizio collettivo anche le interessanti acrobazie della nomade della corda: un momento la attorciglia attorno al corpo come fosse un feto, il momento dopo sembra poter riuscire a volare via lontano. La musica si interrompe, per sentirne il respiro affaticato.

Proprio come nei momenti di buio assoluto risaltano meglio le poche luci intermittenti: sono lucciole, che narrano le loro storie con malinconica ironia.

L’ironia e la complicità sono il filo conduttore che tiene insieme questo collettivo, che così riesce a mostrare, con una grande coscienza sociale, gli atti quotidiani di quelle che restano anzitutto persone: la pericolosa lotta per il pane, il guardare la sorte del vicino, l’appropriazione furtiva delle cose altrui, in un crescendo che porta alla confusione generale, al gioco frenetico con cartoni, materassi, vestiti, in cui tutto si mischia con tutto.

Pian piano si costruisce una montagna di cose usate. È un monumento alla povertà e, al contempo, all’accumulo di esperienze. È un monumento dedicato Ai migranti.

Non stupisce che questo gruppo, ospite della rassegna, pur nella totale essenzialità coreografica, sia stato premiato nella scorsa edizione del Premio Equilibrio (2010) come miglior progetto. La giuria li ha incoraggiati a mantenere e sviluppare il loro approccio corale ed armonico, che partendo dalle diverse esperienze di formazione dei danzatori e usufruendo di pochi mezzi, ottiene un risultato evocativo e poetico su un argomento rilevante delle nostra epoca e, a nostro parere, di ogni epoca.

I danzatori, prima tre, poi cinque ed in questa ultima performance sei, riescono a tirare fuori dai loro bauli una grande capacità di comunicazione tramite immagini al contempo dure, ironiche e poetiche, con il supporto della recitazione e soprattutto del circo, ramingo per eccellenza, che diventa mezzo perfetto per stimolare l’immaginazione, i sogni e la capacità di mettersi nei panni degli altri.

Programma del Festival

Ludovica Marinucci

giovedì 3 febbraio 2011

EQUILIBRIO: LA DANZA DI QUALITA’ TORNA ALL’AUDITORIUM

Come di consueto ormai, nella fredda Roma di Febbraio, l’Auditorium parco della Musica di Roma, regala un appuntamento con la danza contemporanea da non perdere. Ieri sera, nella splendida cornice della Sala Petrassi, si è aperta la fantasmagorica rassegna  “Equilibrio”, anche quest’anno sotto la direzione di Sidi Larbi Cherkaoui.

Teatri di Cartapesta era presente. Di seguito riportiamo le impressioni della redazione.

clip_image002[6]PLAY. Ricordando i giochi seri e disinibiti dei bambini, le turbinose giravolte di due amanti si incastrano nel vortice spazio-musicale creato da strumenti che si allontanano ed si avvicinano sulle loro zattere.Questi intelligenti quadrati, proiettati sullo sfondo, diventano una scacchiera. Un uomo e una donna si sfidano, in una danza da seduti. Il ritmo incalza. Pedine, torri, alfieri, re e regine si sfiorano in una forsennata corsa senza meta. Chi vince? A conti fatti, si finisce sempre pari.

L’importante è il tempo del gioco, il tempo delle strategie. E’ lo sguardo a fare scacco. Si gioca con l’Altro, per l’Altro, imitando vicendevolmente l’Altro. Soltanto così si ritrova il proprio tempo. L’arpa canta storie di maschere; siamo tutti burattini e burattinai. Giocare è più facile, più intrigante, nascosti dietro al proprio alter-ego. Dovremmo liberarcene, ma resta sempre come sospeso … la prima sfida da vincere è quella con noi stessi.

clip_image003[6]Dal coro degli strumenti si aggiungono due giocatori al tavolo. Si gioca a mani scoperte, creando la migliore delle narrazioni possibili. In sintonia ognuno riesce a fare la sua parte. Due mani si scelgono, le altre tamburellano le dita in una nervosa attesa. Una danza seducente sublima la competizione. Un’ironica serenata ci svela quell’amore che rende bendati, forse sordi e un po’ banali.

La musica e i giochi cos’hanno in comune? Allenano la mente e, quindi, le emozioni. Per dircelo Shivalingappa e Cherkaoui intrecciano musica, gesto, parola ed immagine in quello che diventa un sincronico e riuscito gioco di linguaggi. Gioco coreografico, specchio del polisemantico “Play”.

Il risultato è uno spettacolo curato ed evocativo, che nell’esaurire le forze ci impone un’immagine finale: due trattini, “Pause”. Simbolo, che forse invita a fermarci un momento, a guardarci intorno, ed a cominciare, a nostra volta, a metterci in gioco.

Programma del Festival

Ludovica Marinucci