TDC E' UN portale CHE vuole dare voce ad un nuovo modo di fare critica. Una critica che non attacca, una critica che respira, che si riconosce in ciò che vede. Consapevolezza, introspezione ed umiltà sono le parole che descrivono tale lavoro di ricerca. Perché fare critica non sia più scrivere solo di teatro, ma divenga finalmente scrivere per il teatro

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venerdì 28 ottobre 2011

SINDROME DI CASSANDRA


di Claudia Romito

Il futuro è un’ipotesi… plausibile

Un canto che si interrompe, sguardi che sfuggono, nomi che restano impronunciati. L’imbarazzo che accoglie Cassandra è quello che spesso circonda ciò che non si comprende o che non si vuole comprendere. Il timore suscitato dalla profetessa di Apollo è dettato dalla sua apparente distanza, dalla superbia involontaria di chi amava tutti, ma da lontano.
Elisabetta Pozzi entra in scena con un canto caldo, ma un po’ inquietante; la sua voce è profonda e amplificata da un utilizzo strategico del microfono. È una voce profetica, che sembra provenire dall’alto, da un dio; ma anche dal basso, dal ventre, dalle profondità di un tempo divorato e diventato visceralmente parte del corpo della profetessa.
Per predire il futuro basta capire il presente e ricordare il passato. Così Cassandra ci parla di un passato ancora vivo, di un futuro amaramente incerto. Una Cassandra stratega, economista, il cui dono divino sembra in fondo nient’altro che una saggia lungimiranza, accompagnata da una acuta capacità di analisi. Un palchetto scosceso è l’unico elemento scenografico. Attorno a questo e sopra di esso si muovono anche il mimo Hal Yamanouchi e due ballerine che seguono il monologo come un’eco lontana. Solo a tratti la danza interagisce con la protagonista, e in quei momenti i personaggi del suo racconto sembrano impossessarsi dei corpi dei danzatori, fornendo all’attrice la possibilità di reagire a impulsi fisici che ne intensificano l’interpretazione.
Nella drammaturgia curata da Elisabetta Pozzi e Aurelio Gatti, i testi tragici si intrecciano alle visioni profetiche di Baudrillard e ai pensieri più intimi della Cassandra di Christa Wolf, in un lungo monologo che ci svela uno dei personaggi più intriganti della mitologia classica, per quel tanto che vuol farsi svelare, senza forzare quella sorta di pudore che l’avvolge.
Come un personaggio senza tempo, che di tempo però si nutre, la Cassandra di Elisabetta Pozzi arriva fino ai giorni nostri e forse li supera, proiettandosi in un futuro fantascientifico e apocalittico. Sul finale, la discesa verso un baratro fatto di economia selvaggia e tecnologia potenzialmente pericolosa è paventato dalla profetessa in maniera piuttosto pessimistica. Il palchetto sembra, a questo punto, una fragile zattera su cui si affollano l’attrice e i danzatori, come quattro naufraghi, aggrappati alla fragile speranza di non restare, almeno per questa volta, inascoltati.


CASSANDRA o del tempo divorato
Mistras/Mda Produzioni Danza
da Omero, Eschilo, Euripide, Seneca, Jean Baudrillard
con il contributo di Massimo Fini
drammaturgia Pozzi - Gatti
coreografie Aurelio Gatti
musica originale Daniele D'Angelo
costumi Livia Fulvio
con Elisabetta Pozzi, Hal Yamanouchi, Carlotta Bruni, Rosa Merlino, Martina Armaro
luci Stefano Stacchini
realizzazione Scene Capannone Moliere

dal 19 al 23 ottobre 2011, ore 21:00 - domenica ore 19:00 - Teatro Vascello, Roma

giovedì 27 ottobre 2011

INTERVISTA A CHIARA GUARDUCCI, autrice e regista dello spettacolo SUICIDE PROJECT


di Fanny Cerri
Dopo aver assistito alla messa in scena dello spettacolo Suicide Project, al Teatro Furio Camillo di Roma, mi presento alla regista, Chiara Guarducci. Al termine di una breve conversazione, ci scambiamo i numeri di telefono e gli indirizzi di posta elettronica. Una sua richiesta mi sorprende: “Sei su Facebook?”. Ecco quindi nascere lo spunto per la mia prima domanda, nell’intervista che mi concede:
FANNY CERRI/ Facebook, nel tuo spettacolo, è molto presente: sembra essere messo in luce come un falso sistema di comunicazione e come un mezzo solo apparente di espressione delle proprie idee e preferenze. Però lo utilizzi tu stessa per metterti in contatto con gli altri. Pensi che esista la possibilità di un buon utilizzo di questo strumento o lo strumento stesso contiene in sé un baco di sistema?
CHIARA GUARDUCCI/ Suicide Project è una rassegna provocatoria di manie, mode e falsi miti di benessere, un'ironica sfilata dei manifesti e degli slogan di questa società contemporanea, strafatta di televisione, spot e social network. Facebook è solo una delle molteplici attività che inchiodano la giornata di Pinky al suo circuito demenzial-claustrofobico, ben rappresentato dall'idea del videogame. Quel che volevo passasse è la quantità parossistica, il fatto che il nostro vuoto è numeroso, trafficato e spesso camuffato a festa. Noi ci stordiamo e ci nascondiamo dietro mille cose. Per me la quantità è il sintomo principale di quest'era frenetica e invadente e Fb rispecchia la quantità. Basti pensare alla quantità di iscritti e alla gara al gran numero di contatti. A dimostare che esisti. È evidente che la sua diffusione risponde a un'identità fragile e al nostro esasperato bisogno di apparire, di mostrarsi, avendo l'illusione che questo significhi esprimersi. Mi ha sempre fatto molto ridere il Mi piace, di cui peraltro faccio largo uso. Io non sono immune, ho quasi tutte le dipendenze che affido a Pinky, spesso molto contraddittorie tra loro, come psicofarmaci e intrugli vitaminici. La vetrina di Fb è una delle maschere di cui abbiamo bisogno per un confronto sempre più artefatto, easy e protetto con gli altri e con la vita, eppure è anche uno strumento indispensabile per chi lavora nello spettacolo o per chi persegue un impegno sociale e una causa da sensibilizzare.
FANNY CERRI/ Pinky è un personaggio che poco ha di umano. Non è libero di scegliere, di agire, di sentire e di esprimere sentimenti autentici e individuali. E’ una sorta di automa, che forse contiene in sé solo il germe di una rivolta inattuabile. Hai immaginato questo personaggio come una realtà già insita nella società in cui viviamo, come una proiezione futura verosimile o piuttosto come un incubo?
CHIARA GUARDUCCI/ Hai afferrato perfettamente. Ma nessuno di noi è libero, siamo tutti un po' pinky: lui, nella sua natura 'meccanica', agendo e ripetendo desideri di massa, svela quanto siamo automi, spesso obbedienti alla stupidità collettiva. E' un personaggio che ho inventato per prenderci in giro, mostrando quanto siamo passivi e obbedienti. E questo ha in sé il germe di una rivolta. Pinky, per ribellarsi, ha solo il suicidio; si suicida per non diventare uno zombie, per uscire dal sistema. Noi ridiamo, ma portiamo a casa un sapore amaro, perché è un incubo infilato sotto la pelle del presente. Riconosciamo quell'alienazione. Ma io ho voluto creare uno spettacolo che divertisse, così le spine passano meglio.
FANNY CERRI/ All’inizio dello spettacolo, Pinky inscena una danza gestuale che mima il suicidio. L’esordio, quindi, così come il titolo, preannuncia già chiaramente la fine. Pinky desidera davvero morire? Suicidarsi, per lui, è una scelta?
CHIARA GUARDUCCI/ È il suo sogno irrealizzabile. Essendo un fumetto, si rialza sempre. Non c'è soluzione per questo buffo e sciagurato personaggio: lui sceglie continuamente il suicidio; è l'unico modo che ha per rompere la sua quotidiana catena di montaggio. Tuttavia, è un suicidio ripetuto ad oltranza e seriale, come tutti gli altri gesti, dunque comicamente e tragicamente ingoiato nella catena stessa. E’ qui che vince la cifra paradossale e grottesca di questo spettacolo.
FANNY CERRI/ Quali problemi pone a un autore di teatro scrivere un testo che ha uno sviluppo drammatico volutamente molto flebile e che rappresenta un succedersi di azioni tutte simili le une alle altre? Hai temuto, in fase di scrittura, che il pubblico potesse non reggere a una ritmica e a una fraseologia così uniformi?
CHIARA GUARDUCCI/ Ho desiderato esasperare il pubblico, provocarlo, giocarci. La ripetizione crea effetti comici e paradossali. Pinky doveva essere un tormentone: è nel suo DNA. E’ così che mette in ridicolo tutti i tormentoni che ci propinano, sparando la sua pinkymania! Ma c'è uno spiazzamento verso il finale, una rottura con l'atmosfera e la struttura precedente. Quando Pinky mangia pillole come popcorn e la voce che lo ha accompagnato fino a quel momento si fa feroce, si apre la parte finale: una partitura di gesti rituali scandita dal silenzio, tanto che lo spettatore si trova precipitato in una zona profonda, in un sentimento che non aveva previsto. 
FANNY CERRI/ E’ stato difficile dirigere un’attrice, impedendole di esprimere emozioni per tutta la durata dello spettacolo?
CHIARA GUARDUCCI/ Elisa è stata molto brava, ha colto subito l'appartenenza di questo personaggio a una dimensione fumettistica e dunque la necessità di essere privo di psicologismi ed emozioni. Addirittura privo di una sua voce. Abbiamo lavorato molto sul corpo. L'impassibilità del volto non è facile da ottenere, ci vuole una notevole concentrazione. La precisione di Elisa, la pulizia dei suoi movimenti è stata fondamentale. Mi piace quando l'attrice non esprime emozioni e lo spettatore le prova, come nella seconda parte dello spettacolo. Quando c'è la vestizione e l’apparecchiatura natalizia, quando le foto coincidono con una scarnificazione, con una nudità spaventosa, e gli oggetti di festa proiettano le loro ombre lugubri, dentro si spacca qualcosa. Questa è la magia del teatro.
FANNY CERRI/ Come si inserisce Suicide Project nella tua produzione artistica complessiva? E’ la scoperta di un linguaggio nuovo che continuerai a sviluppare o immagini che resti un punto di discontinuità? Era già presente, sotto qualche forma, nei tuoi lavori precedenti?
CHIARA GUARDUCCI/ Sicuramente era presente una tara nichilista e un forte senso del grottesco ma, in effetti, mai come in questo lavoro ho messo da parte la mia scrittura. Il testo è strettamente funzionale alla performance e quasi del tutto privo della carica poetica che contraddistingue il mio percorso. Devo ammettere che mi sono talmente divertita con questo progetto, il primo in cui ho una parte così attiva (voce off in diretta), che ho già in cantiere una sorta di sequel o comunque un ampliamento di nome SUICIDE FAMILY che, come si capisce dal titolo, sarà la parodia della famiglia ideale.  
FANNY CERRI/ Nel tuo spettacolo, giochi con l’appiattimento dell’immagine e con la distanza emotiva fra l’attrice e il pubblico. La vera quarta parete, di cui tanto si dibatte in teatro, è in realtà lo schermo di un computer?
CHIARA GUARDUCCI/ Ho cercato di realizzare un fumetto vivente nel trip del suo circuito ossessivo. Ho desiderato che il pubblico lo sentisse chiuso in una gabbia immaginaria, con troppo spazio a disposizione. Non ho pensato alla quarta parete, ma non credo possa mai coincidere con lo schermo di un computer.

mercoledì 26 ottobre 2011

I DOLORI DELL’INGEGNER GADDA Un Amleto Pirobutirro tra guerre mondiali e intime

 
di Claudia Romito

Una sagoma scura entra in scena tagliando in diagonale lo spazio. Avvolta da questa semioscurità, la figura si affretta a prendere una sedia e inizia a tracciare nervosamente delle linee sul palco, come su di una lavagna magica. All’improvviso: luce! Le linee tracciate in maniera rigorosa diventano luminose e la figura inizia a delinearsi, a farsi riconoscere: è Amleto, è Gadda, è Fabrizio Gifuni.
L’ingegner Gadda va alla guerra è uno spettacolo costruito attorno alla parola: dalle parole scritte, complesse e forse poco teatrali di Gadda, a quelle poetiche e drammatiche di Shakespeare, che uno straordinario Fabrizio Gifuni riesce a interpretare con eguale e di volta in volta diversa tensione. “Parole, parole, parole…” recita un Gadda-Amleto mentre inizia ad inscenare la sua metodica pazzia, ed è con queste che Gifuni gioca con estrema maestria, miscelando dialetti, inflessioni e registri diversi, creando una partitura vocale ricca di colori, un pasticcio sonoro che concorre e si sposa con il miscuglio lessicale di Gadda.
Il rigore da ingegnere dello scrittore milanese, così come l’estrema lucidità del principe di Danimarca, portano entrambi i personaggi ad un collasso esistenziale. Il mondo, che si vorrebbe ordinato e razionale, si mostra confuso e folle. La guerra sconvolge l’esistenza dello scrittore, ne plasma l’anima, attraverso un rapporto con il dolore che diventa mezzo di conoscenza, uno strumento che, quando sembra annientare, rafforza.
Il disegno di luci geometrico contribuisce a sottolineare la mentalità da ingegnere di Gadda e, allo stesso tempo, è funzionale alla suddivisione dello spazio narrativo. Un corridoio luminoso, a forma di L blu, è il regno di Amleto, mentre il resto del palco è di Gadda. Un trapezio di luce avvolge ad un tratto lo scrittore, come in uno stemma militare, mentre la l’illuminazione diventa diffusa e uniforme sul finale.
La prima parte dello spettacolo è basata su I diari di guerra e di prigionia, il resoconto fedele della partecipazione di Gadda alla prima guerra mondiale: la disfatta di Caporetto, la detenzione nei campi di prigionia tedeschi e la morte del fratello Enrico. Nella seconda parte il linguaggio e l’attore esplodono e si liberano ulteriormente nel pamphlet antimussoliniano Eros e Priapo. È sempre Gadda ed è sempre il secolo scorso, ma è senza grosse forzature o complici strizzate d’occhio che lo spettatore coglie un chiaro riferimento all’attualità. La luce in sala si accende e il pubblico, interpellato direttamente, è chiamato a scrollarsi da quel torpore di cui il buio della sala a volte si fa complice. È invitato ad un atto di conoscenza con che nu’ dobbiamo riscattarci e che prelude la resurrezione, se una resurrezione è tentabile da così paventosa macerie.
Dietro questo metodico delirio in un toscano arcaizzante, tra tragedia e pantomima, Gifuni ci va elencando le caratteristiche della personalità narcissica, analizzando con partecipato distacco i sintomi di una psicopatologia erotica annidata nel potere di ieri e di oggi. I toni sono quelli di un’invettiva carica di sarcasmo. Il linguaggio del corpo da secco e militarmente nervoso si fa fluido e scattante. Agli echi cinquecenteschi della parola artificiosa di Gadda si unisce un gesticolare colorito quasi da Commedia dell’Arte. Gifuni istrioneggia, ma senza sbavature.

L’INGEGNER GADDA VA ALLA GUERRA
(o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro)
un’ idea di Fabrizio Gifuni
(da Carlo Emilio Gadda e William Shakespeare)
con Fabrizio Gifuni
regia Giuseppe Bertolucci
disegno luci Cesare Accetta
direttore tecnico Hossein Taheri

dall'11 al 16 OTTOBRE 2011 dal martedì al sabato ore 21:00 - domenica ore 19:00 - Teatro Vascello, Roma

martedì 25 ottobre 2011

TUTTI GLI UOMINI SI INNAMORANO DI GILDA, MA SI SVEGLIANO LA MATTINA DOPO CON RITA.


di Francesca Zompetta

Il fascino non si crea dal nulla. Il fascino non si ferma nemmeno davanti al glamour.

L’incanto retrò in bianco e nero viene portato in scena. La toletta dove spazzolare i lunghi capelli rossi o bere whisky, il separé ricco di colori e tessuti sfavillanti, il telefono con il filo arricciato, di quelli dove squillano voci felpate, e un pianista che ci accompagna dall’entrata in sala provocano un pizzico di nostalgia noir anni ’40, quel che basta a  farci chiudere gli occhi e  catapultarci indietro nel tempo, in quella famosa sera del 1946.
Tutto ebbe inizio in un piccolo paese dove lo schermo del cinema di Mario di solito proiettava pellicole per il puro piacere dei giovanotti locali, in cerca di belle forestiere.
Questa volta era diverso. Era stata addirittura scomodata la voce di Francesco Pannofino per annunciarla. Questa volta il cinema di Mario non portava in scena il solito spettacolo, ma dava forma alla futura icona della femme fatale, Gilda. 
Eccola lì, la bomba atomica del ‘46: una prorompente rossa, fasciata dal famoso tubino nero di Jean Louis, con coda e spacco, calca le scene riproponendo un Put the blame on Mame, con tanto di guanto sfilato e “ascelle depilatissime”, così magnetico che non può non affascinare ed essere imitato in futuro.
A partire da questo momento, il pubblico comincia a vivere un intenso tête-à-tête con Grazia Schiavo, che interpreterà tante donne durante lo spettacolo. Lei stessa confessa di non essere all’altezza di imitare un’icona della moda e del cinema come Rita Hayworth ed è proprio questo il nodo centrale dell’intenso monologo.
Rita Hayworth, prima di tutto, non era all’altezza di se stessa, o meglio della sua immagine, essendosi sottoposta ad innumerevoli e dolorosi interventi chirurgici, già allora, tanto da ritrovarsi con una palpebra scesa, camuffata perennemente da ciglia finte. In secondo luogo l’attrice non si sentiva degna di un personaggio come Gilda, così ingombrante per una donna vulnerabile e bisognosa d’amore come lei.  Ed infine, sentiva di non poter più corrispondere nemmeno al suo ruolo di attrice (Hollywood non aveva più bisogno di lei), di moglie (ben 5 matrimoni alle spalle) e di donna, tanto che, sentendosi ripudiata, passerà gli ultimi anni della sua vita a bere, perdendo non solo la sua bellezza, ma anche le sue funzioni mentali a causa del morbo di Alzheimer.
La straordinaria Grazia Schiavo regala ai suoi spettatori scene di esilarante comicità, con concessioni al dialetto e ai doppi sensi, proponendo frammenti di deliri estratti dal “Gilda” come “…ti amo tanto che un giorno ne morirò, Johnny”, accompagnati da baci e schiaffi continui e rivelazioni biografiche così scabrose o sconosciute da destare stupore. Ma fa anche di più: interagisce con il pubblico in modo da non creare preferenze tra quello maschile e quello femminile.
Eh sì, perché spiazza un po’ le donne quando si siede sulle ginocchia degli uomini, e nel tentativo di sedurli, desta sghignazzi ed una sorta di bonaria invidia. Ma si riprende immediatamente, instaurando con loro una sorta di tacita complicità ed inneggiando alla solidarietà femminile. Così desiderata dagli uomini, dunque, ma anche così vicina a tutte le donne che, proprio come lei, sanno bene cos’ è il dolore fisico scaturito dal mal d’amore e che, pian piano, vedono, quasi con sollievo, sgretolarsi sotto i loro occhi un mito così lontano dal quotidiano reale.  E’ una Rita imperfetta, a cominciare dal vestito stretto e appositamente mal cucito da una sarta scappata col pompiere, e sfiancata da una dieta che la mette a stecchetto. Essa mette a nudo tutte le sue fragilità, un vuoto d’affetto che tenta di colmare con la disperata richiesta di conferme ed approvazione dal pubblico. E’ una femme fatale, ma nemmeno poi così convinta, una mamma, una donna che ama profondamente, ma non è corrisposta, una signora delirante tra le mura della sua casa, ma quasi disumanamente ineccepibile dietro lo schermo.
Una carrellata di splendidi vestiti vintage, provenienti direttamente dalla bisca di lusso di Ballin e non solo, sfila estemporaneamente su un palco sempre vivo e pregno di storia ed emozioni. Chissà quanto deve aver amato, odiato, cucito addosso a sé questo personaggio, la straordinaria Grazia Schiavo, che infine si rivolge anche al pubblico più giovane, lasciandolo riflettere a bocca aperta su un interrogativo amletico: La femme fatale, oggi, chi è? Esiste ancora? Ai posteri l’ardua sentenza. Dunque il famoso dualismo vittima o carnefice rimane irrisolto.

Gilda
Con Grazia Schiavo
Testo e regia  di  Mario Moretti
Collaborazione alla regia di  Patrizia Schiavo
Aiuto regia Priscilla Micol Marino
Musiche dal vivo Francesco Marino
Luci e tecnica Simona Parigini, Sergei Yanchev
Elementi scenografici Battiti di cuore
Voce fuori  campo Francesco Pannofino

Martedì 11 ottobre 2011 ore 21:15, Teatro dell’Orologio di Roma