TDC E' UN portale CHE vuole dare voce ad un nuovo modo di fare critica. Una critica che non attacca, una critica che respira, che si riconosce in ciò che vede. Consapevolezza, introspezione ed umiltà sono le parole che descrivono tale lavoro di ricerca. Perché fare critica non sia più scrivere solo di teatro, ma divenga finalmente scrivere per il teatro

Benvenuti :)

lunedì 13 settembre 2010

Lex coreutica…

 

Legge

Sono felice di comunicarvi che "Teatri di Cartapesta" sta collaborando alla stesura di una relazione che descrive ed evidenzia le condizioni dei lavoratori dipendenti e indipendenti impiegati nel settore coreutico. Il fine di tale relazione, che sarà esaminata da alcuni Deputati e Senatori del nostro parlamento, è quello di strutturare e proporre una riforma dello spettacolo che tenga conto delle reali esigenze di chi vive quotidianamente la danza in tutti i suoi aspetti.

Per qualsiasi dettaglio vi sarà possibile contattarmi all'indirizzo e-mail riportato su questo sito.

A tutti i lettori di TDC grazie per la vostra partecipazione.

Con affetto

Gianpaolo Marcucci

mercoledì 28 aprile 2010

DIES IRAE. 5 EPISODI INTORNO ALLA FINE DELLA SPECIE

di Gianpaolo Marcucci
Dies irae1 Non bisogna stupirsi se quando si chiede ad un pubblico di scegliere cosa vedere, chieda quasi sempre di danzare. Il movimento da l’illusione dell’esistenza del tempo. Un orologio domina la scena. 21:44 – 60:00. I numeri hanno la presunzione di sancire la posizione dell’uomo. Cosa sarebbe successo se Hitler fosse stato assassinato nella culla? Da lontano una canzone sussurra una smielata preghiera, mentre, senza trasporto, viene consumata la tortura di una donna inerme le cui grida arrivano alla nostra pelle. Aspetta, è solo una simulazione, una messa in scena. Il sangue è fittizio e il luogo, asettico; ricorda quasi le orwelliane celle che precedevano la stanza 101. “Abbiamo dato un nome alle cose per poterle ricordare quando mancano”; con razionale fretta ottimizzatrice, si cerca di fotografare, nominandoli, tutti i possibili lati di un’umanità che sta per scomparire, dalla carnale essenzialità di un corpo, alla dolcezza effimera di un abbraccio. Lo zero è arrivato. Nel buio si esaurisce la vecchiaia di tutte le epoche; forse per dare l’idea che il tempo, già stanco, si nasconda dietro ad una rumorosa pioggia di polvere. Comunicazione di servizio: Per chi volesse acquistarle, le 7 meraviglie del mondo, sono in vendita ad un’asta al ribasso.
La proposta scenica che la compagnia “teatro sotterraneo” porta in luce, emoziona e fa riflettere. Dal punto di vista tecnico “Dies Irae. 5 episodi intorno alla fine della specie” risulta essere uno spettacolo davvero meritevole. Luci e scene sono essenziali ma molto efficaci. Gli attori sono validi (preparati anche dal punto di vista del movimento) e la direzione, pur nella volontà d’esser originale, è attenta e curata. L’ironia è utilizzata in giusta misura, lo spettacolo diverte, ma tiene sempre in se una visibile vena di profondità. Viene molto apprezzato l’uso di un meta-teatro che si trasforma in interattività. Giunge spontaneo chiedersi cosa sarebbe successo se qualcuno dei “chiamati” dall’elenco telefonico avesse risposto all’appello! Interessante infine la scelta di utilizzare una sola canzone (Halleluya di Jeff Bacley), una sorta di leit motiv spirituale, come “soundtrack dei 5 episodi”. Il giudizio è positivo; ci auguriamo che questa giovane compagnia continui a produrre lavori degni di un teatro di ricerca che con respiro, guardi sempre più, al di fuori dei polverosi confini nazionali.
Abbiamo incontrato Daniele Villa e i ragazzi di Teatro sotterraneo. A seguire alleghiamo l’intervista:

GIANPAOLO MARCUCCI/ Dies Irae è una riflessione sul tempo, e sull'uomo. Da dove siete partiti per questo progetto, e dove siete arrivati?
DANIELE VILLA/ Non a caso il sottotitolo è 5 episodi intorno alla fine della specie: esattamente un lavoro sull’uomo e il tempo, sull’uomo nel tempo e sull’azione del tempo su l’uomo. Siamo partiti dalla paura ancestrale dell’estinzione, della scomparsa come specie, ma non in termini catastrofici, non come interrogazione del momento apocalittico in cui tutto muore, non c’interessava un disaster movie teatrale, abbiamo piuttosto cercato un modo per osservare l’assenza dell’uomo e costruire un pensiero postumo. In questo l’archeologia, e in particolare il metodo stratigrafico che dissotterra e classifica per livelli di sedimentazione, ha rappresentato un’idea di struttura. Gli episodi corrispondo a livelli stratigrafici, sedimentazioni geologiche, e alla fine è come se avessimo un sito archeologico composto da reperti databili. Il rovesciamento di prospettiva, e quindi lo spostamento di senso, sta nel fatto che invece di procedere per scavi Dies irae procede per sepolture, quasi come un rito funebre. Chiaramente qui dovrebbe avvenire un ulteriore rovesciamento: seppellire l’immaginario, l’oggetto, le visioni dell’oggi è un modo per cantare il nostro tempo e quindi scavare in esso e nella coscienza che ne abbiamo. Ogni episodio lavora sulla traccia: dal primo che si compone per tracce ematiche fino al quinto che deposita sale su macerie. La traccia è ciò lasci.

GM/ E' per accentuare il senso di estemporaneità che avete scelto di usare così tanto l'interazione col pubblico? Che significato le avete dato?
DV/ L’estemporaneità per noi non è un fine ma un mezzo. Abbiamo già coinvolto il pubblico in altri lavori ma non con l’intento di acquisire imprevedibilità, piuttosto partecipazione diretta. In Dies irae il significato dell’interazione col pubblico ruota attorno all’esercizio della cittadinanza, quindi al senso di responsabilità e alla possibilità di scegliere. Se stiamo archiviando porzioni del presente (operazione inevitabilmente arbitraria e parziale) è chiaro che stiamo anche riflettendo sui soggetti, oltre che sulle cose. Per questo c’è un testimone che scandisce gli episodi, per questo l’ultima testimonianza viene richiesta a uno spettatore, che potrà riportare l’accaduto oppure mentire e falsificarlo o addirittura non ricordare nulla. Per questo si può scegliere se intervenire o no più o meno in tutti gli episodi, fa parte della costruzione dell’archeologia del presente su cui opera Dies irae, volevamo includere il cittadino e la sua presa di posizione.

GM/ Cosa pensate del teatro di ricerca dei nostri giorni? Avete degli autori contemporanei di riferimento?
DV/ Difficile, pensare il teatro di ricerca dei nostri giorni. Già in Italia la complessità è enorme. Se poi allarghiamo il discorso ad un livello anche solo europeo rischiamo la vertigine. Quello che possiamo dire è che sentiamo di far parte di un fenomeno di vitalità, che la crisi è l’habitat naturale del teatro e non da oggi, così proprio oggi il teatro riesce a esprimere nuovi talenti, energie e linguaggi. La geografia del nuovo teatro italiano è diversificata e copre tutta la penisola, la proposta poetica è articolata e quasi impossibile da categorizzare. Qualcosa accade. Ma il fenomeno è in corso, per cui potrebbe anche esaurirsi senza divenire strutturale, è troppo presto per immaginarne l’evoluzione. Quanto agli autori il discorso è ampiamente extrateatrale. Chiaramente c’è una prospettiva da cui sentiamo di provenire e chiaramente ci siamo affacciati al teatro osservando le esperienze di Teatri ’90 e le drammaturgie contemporanee, ma la maggior parte dei nostri strumenti e dei nostri consumi culturali vanno rintracciati fuori dalle sale teatrali: arti visive, design e illustrazione, cinema, letteratura, e anche porzioni di popular culture legate a fumetto, televisione e videogame. Di solito usiamo il termine avant-pop: i nostri autori di riferimento sono attivi in ambiti molteplici e contraddittori, noi cerchiamo di muoverci ed esprimerci lungo un confine.

GM/ Come vi siete trovati con il teatro Palladium e Roma-Europa che vi hanno ospitati quì a Roma?
DV/ Il Palladium e Roma-Europa per noi hanno sempre rappresentato un interlocutore di primissimo livello. Uno di quei luoghi in cui speri di arrivare quando sei agli inizi. Chiaramente guardi a un luogo come il Palladium per il prestigio e la qualità dell’offerta culturale, ma quando ci entri sperimenti anche la professionalità e capacità delle persone che ci lavorano e che ti permettono ti fare al meglio il tuo dovere. Roma è centrale per molti aspetti, nel teatro come in altri ambiti. Presentarsi qui all’interno del contesto del Palladium e del progetto Fies Factory One rappresenta una condizione ottimale.
GM/ In un momento di difficoltà per la cultura italiana che non incentiva quanto dovrebbe il lavoro in ambito teatrale, come riuscite a portare avanti il vostro lavoro?
DV/ Lavorando, portiamo avanti il nostro lavoro. Noi non possiamo lamentarci, una parte della critica ci identifica e ci segue, le istituzioni della Toscana ci sostengono e nel paese troviamo interlocutori che riconoscono qualità al nostro progetto, su tutte le Centrale Fies di Dro e il progetto Fies Factory One che ci sostiene da tre anni, ma anche il teatro Metastasio Stabile della Toscana che ha co-prodotto il nostro ultimo lavoro L’origine delle specie _ da Charles Darwin, seconda parte del Dittico sulla specie avviato con Dies irae. Detto questo rimane che l’attività di Teatro Sotterraneo non è fatta solo di repliche. Curiamo progetti specifici e produzioni di diverso formato (dal site-specific performativo alla mise en espace), teniamo laboratori che si concludono con dimostrazioni di lavoro, abbiamo 4 produzioni in repertorio e siamo una struttura indipendente, autonomi anche da un punto di vista organizzativo e amministrativo. Gli stessi che curano una produzione e vanno in scena si occupano di logistica, tecnica, comunicazione ecc. Direi che andiamo avanti semplicemente dando tutto.

Teatro Sotterraneo
in scena: Sara Bonaventura, Iacopo Braca, Matteo Ceccarelli, Claudio Cirri
scrittura: Daniele Villa
disegno luci: Roberto Cafaggini
costumi: Lydia Sonderegger
scene: Loris Giancola


Dall’articolo di MPNEWS di Gianpaolo Marcucci

domenica 21 marzo 2010

FIBRE PARALLELE E LA LORO BARI

FIBRE PARALLELE E LA LORO BARI

di Katia Caselli

Fibre_Parallele Un Palladium trasformato in una cripta familiare. Musiche assordanti e un chiacchiericcio di sottofondo. Un padre, un figlio, una zia e un capitone. Così inizia Furie de Sangre. Emorragia cerebrale di Fibre Parallele. È la storia di una famiglia di Bari: un padre che indisturbato esercita la sua autorità; un figlio un po’ stolto che passa le sue giornate a giocare al Gratta e Vinci; una zia dai tratti severi, impegnata a prestare cure ed attenzioni al suo capitone.

Poi l’arrivo di una fidanzata, che sbuca direttamente da un sacco nero dell’immondizia, volgare nei modi e nel conciarsi. È qui che si consuma il dramma familiare. A seguito di numerosi controlli ed interrogatori, la nuova arrivata sarà vittima di una violenza da parte del padre, che penetrato dal capitone, improvvisamente scomparso dalla vasca, vivrà un processo di inebetimento, a causa del quale non sarà più capace di parlare. L’impoverimento dell’uno sarà forza per l’altra: la fidanzata, presa coscienza di quella che sarà la sua nuova vita domestica, si rivolgerà direttamente al pubblico, raccontando le sue speranze sul futuro.

Non riesco in realtà a capire cosa di questo spettacolo merita più attenzione e sia degno di essere il soggetto di una recensione. All’inizio ero convinta, che sì, in fondo questo lavoro poggia la sua validità sulla ricostruzione antropologica che Fibre Parallele riesce a fare del sud Italia, lo spaccato di una Bari primitiva, riassunta dalle vicende di una famiglia. Se così fosse, più che di uno spettacolo teatrale, potremmo parlare di una vera e propria ricerca scientifica.

Ma in questo modo mi sembrava di ridurre il lavoro ai minimi termini. Allora sì, ecco cosa ritroviamo di veramente brillante e importante, la lingua. Non è scorretto sottolineare l’importanza dell’uso del dialetto, strumento idoneo e forse l’unico pensabile per una possibile traduzione di una cultura altra. In fondo associando gesto, visione e parola, riusciamo fin da subito a seguire i dialoghi tra il padre, il figlio, la zia e la fidanzata, a riderne dei loro comportamenti. No, in realtà non può essere nemmeno questo.

Sì, ci sono è la costruzione scenica: come la mano destra e la sinistra formano una simmetria enantiomorfa, così il palco e la platea del Palladium si osservano a vicenda, si specchiano l’uno nell’altro, riflettendo nella forma simile le loro differenze. Il padre ci guarda, con il telecomando in mano puntato su noi spettatori, pronto a cambiare programma; la fidanzata trionfante ci parla, alla fine dello spettacolo, conducendoci così al termine di questo viaggio. E noi con il nostro sguardo siamo intenti a guardarli agire. Sì, è certamente così, altrimenti non ci ritroveremmo illuminati dopo esserci nascosti nell’oscurità della sala per tutta la durata dello spettacolo, aver spiato dal buco della serratura, assistendo omertosi al dramma familiare che si andava consumando. Ma è davvero possibile pensare di assistere ad un’ora di spettacolo ed aspettate la sua fine per apprezzarlo?

Con Furie de Sangre. Emorragia Cerebrale, Fibre Parallele in realtà riesce a fare tutto questo: con figure dai tratti posticci ci parlano della loro terra; con l’uso del dialetto, ci illustrano un percorso di ricerca sulla lingua; con la loro regia e drammaturgia si prendono gioco di noi, scoprono e illuminano il nostro sguardo giudicante, pronti a puntare il dito su ciò che è diversamente simile a noi.

domenica 7 marzo 2010

VERTIGINE 2010 – PARTE TERZA

VERTIGINE 2010 – PARTE TERZA

di Gianpaolo Marcucci

Giungiamo dunque al terzo e ultimo giorno del festival. I toni si abbassano un po’ ma la qualità rimane la prerogativa principale. Solo ora, comunque, si comprende appieno che l’intento di Vertigine era quello di fornire al mondo (ricordiamo la numerosa giuria internazionale) e ad un pubblico non per forza abituato a questo tipo di lavori, uno spaccato del teatro di ricerca Italiano. Non c’è quindi da stupirsi se alcuni lavori sono risultati più interessanti ed altri meno; se alcuni lavori fanno uso smodato della parola, ed altri delle immagini, o del movimento; e ancora, se alcuni lavori sono sconosciuti, ed altri già più che varati dagli addetti ai lavori. Vertigine è un Festival, una piattaforma, un luogo che si trasforma in occasione. A 15 compagnie emergenti, è stata data la possibilità di esibirsi con i propri lavori migliori, in uno degli spazi più belli e completi della scena italiana. L’auditorium è stato cornice di un’esperienza artistica e formativa di altissimo livello. Finalmente il pubblico romano, ha avuto la possibilità di fare una vera full immersion in quell’avanguardia italiana che un po’ per vezzo, un po’ per necessità, è abituata a calcare solo un certo tipo di palcoscenici. Giorgio Barberio Corsetti rompe così l’equilibrio, donando al parco della musica di Roma, quelle ali necessarie a superare la vertigine snob dell’altezza e a volare verso gli orizzonti della sperimentazione. Alleghiamo due piccole riflessioni su quelli che crediamo possano essere i vincitori della terza serata.

- I will survive di Giorgia Maretta e Andrea Cavallari

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Tra le semidesertiche distese di un pianeta post-umano, strutture incoerenti di materiali riciclati si assemblano e compongono alla ricerca di volumi efficaci. E’ la lotta per la sopravvivenza. L’organicità dell’inorganico è un concetto che si respira; forme apparentemente inanimate, che cercano di raggiungere, tassello per tassello, un’agognata stabilità. Si rievocano le macchine, ma sono macchine nuove. Collaborazione è una parola che emerge. Il contributo di ognuno per il fine comune, fare un passo avanti, uno alla volta, o magari uno solo, alla ricerca continua di un nuovo equilibrio. Ricordando un po’ AIBO e un po’ Wall-e, dei piccoli robot impacciati inscenano un freddo ma simpatico giuoco di relazioni. Comunicano, si interfacciano, si aiutano; sono loro ora i nuovi abitanti. “Sono” però è forse la parola sbagliata. Una volta raggiunto l’obiettivo infatti, le due componenti, senza guardare indietro, tornano a far parte dell’organismo madre. Quello che prima sembrava un cumulo di resti inanimati, una città di baracche di cartone, ora è diventato un’unica massa viva che avanza. Il passaggio da giocoso a inquietante è breve. Il totem cammina, viene verso di noi, ci sovrasta. Qualcosa non va però, forse un ingranaggio, un circuito, o una bottiglia di plastica. L’equilibrio viene a perdersi e il mostro buono crolla su se stesso, tornando ad assomigliare a quell’agglomerato senza vita apparso all’inizio. Tutto tace, il gioco potrebbe ricominciare da capo, all’infinito, ma l’applauso imbarazza le scatole, e dal cartone, escono tre provati individui che ringraziano per il caloroso apprezzamento.

- Periodonero della compagnia Cosmesi

Di Eva Geatti e Nicola Toffolini

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Cosa succederebbe se da un momento all’altro scomparissero i colori? Se le uniche scale cromatiche diventassero quelle dei grigi, e non si riuscisse più a distinguere nulla se non la differenza tra luci e ombre? Di sicuro, una cosa accadrebbe. I protagonisti diverrebbero inevitabilmente il bianco e il nero. Le dicotomie però sono gabbie asfissianti, è inevitabile, per vivere su uno sfondo bianco, non si può che diventare neri. Così un’energica figura femminile, silhouette di se stessa, pur cercando in tutti i modi di essere “altro”, di opporsi, di fuggire dalla massa di sagome uniformi che circondano i suoi bordi, si trova a non poter fare a meno che assorbire lentamente dentro se stessa, tutto il nero che governa il suo mondo. E non bastano le grida, le proteste, le distrazioni o le balene; in un periodo nero tutto sembra più difficile, per scalfire un poco il buio ci sono cavi interminabili da snodare e poche lacrime possono cancellare tutto ciò che si era costruito. Così dopo una deludente giornata passata a cercare un’uscita che non c’è, che cosa fare se non fermarsi un attimo e lasciarsi staticamente mangiare dalla propria ombra?

VERTIGINE 2010 - PARTE SECONDA

VERTIGINE 2010 – PARTE SECONDA

di Gianpaolo Marcucci

Il secondo giorno della rassegna vertigine 2010, non delude. La direzione artistica continua a dimostrarsi curata, attenta e di notevole qualità. Tra i cinque spettacoli proposti, Teatri di Cartapesta sceglie di segnalare, riconoscendone un altissimo valore artistico, i due lavori in concorso: “Caravankermesse” di David Battignani e Natascia Curci e “Desideranza” di Teatrialchemici.

- Caravankermesse di David Battignani e Natascia Curci

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E’ ora la volta della magia, dei saltimbanchi e dei cerchi di fuoco. Il circo quando è accesso lo vogliono vedere tutti, ma cosa succede quando sul campo di sera scende il buio e lo spettacolo, volto al termine, lascia solo opachi strascichi di intima quotidianità? Curiosi rumori giungono da lontano. Gabbiani di notte? No, è la risata del bizzarro e sguaiato signor Ker, che in cima ad una ripida salita, aspetta paziente, pronto ad accompagnarci in un'esperienza al limite del surreale. Se vivi fermo, le tue pareti mano a mano appassiscono, se la tua casa può volare invece, i colori rimangono vivi, ma non si può più esser sicuri delle proprie finestre. Caravankermesse è un viaggio, un entrare ed uscire da un legame. Si chiede di più agli spettatori che una banale prestazione di attenzione; qui non siamo a teatro, non siamo nemmeno nello stesso mondo, siamo sospesi in un luogo altro. Qui, si tratta di aver il coraggio d’essere accolti in un'emozione, e provare con se stessi, a muovere il cuore della giovane Miss. Messe. Dall’esterno, una parvenza di distanza rimane. E’ simpatico il signor Ker, e ama giocare. Poi però, arriva il momento di entrare, di essere accolti, in quanto ospiti, nella dimora della donna. L’attesa ha dato i suoi frutti, finalmente si entra nel caravan e si sa, tutto può accadere in un caravan. Come per Alice, le dimensioni diventano un dettaglio, una variabile marginale. Minuscoli trapezisti, nani, clown e oche canterine abitano piccole valigie; nella mobile casa di Miss. Messe, l’atmosfera è onirica. Se si è attenti, si può scoprire che i muri hanno mani morbide e curate, che un abbraccio è vero se si vuole che sia così e che i lampadari possono rivelarsi sorprese assai graziose. L’intera roulotte respira con noi, e sulle note in lontananza del signor Ker, rimasto fuori a intrattenere altri avventori, è possibile pescare carte da una soffice urna dal collo lungo e affusolato. E’ vero ciò che raccontano “le loro pareti sono sottili, il pavimento instabile e il tempo breve infastidisce l’intimità”. Se volete credere a quello che avete visto, Caravankermesse, è uno spettacolo bellissimo; uno spettacolo bellissimo.

- Desideranza di Teatrialchemici

di e con Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzo

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In merito a Desideranza, da ritenersi eccellente sia dal punto di vista del testo, profondo ma leggero, che dal punto di vista della regia accurata e della lampante competenza degli attori, Teatri di Cartapesta si riconosce in pieno nella critica pubblicata dal portale di Emanuel Silci “Eco di Torino”, che riportiamo per intero:

In un desolato paese della Sicilia, nel giorno di Sant’Antonio due fratelli salgono fino alla stanza soprasopra. Pino, primo fratello, e Sergio, handicappato, mezzo cervello, fardello più che fratello. Qualche piano sotto qualcosa di terribile è accaduto. Centocinquanta chili di madre-padrona giacciono nella vasca da bagno. La giornata di Sant’Antonio è giorno di liberazione, di volo. I due fratelli, dopo essersi liberati dalla zavorra materna, sognano di arrivare dritti nella casa dell’Orsa Maggiore, su nel cielo. Ma serve un ultimo gesto: estremo, calcolato e spettacolare, da compiere proprio mentre la processione con la banda e la statua del Santo passano sotto la loro finestra: “Sergio, tudei io e tu veri femus!”. Questo dramma familiare si consuma tutto negli istanti che precedono il sommo atto; brevi momenti in cui è possibile leggere la vita intera della misera famiglia, scandita da pisciate e cacate della matrona, dai cambi di mutande, dai bagni in vasca per sgrasciarla, tentando di resistere agli improperi e ai suoi capricci da generalessa. In scena basta una tenda a fiorellini. L’intensa interpretazione dei due attori è sufficiente a creare attorno a quel lembo di stoffa non solo tutta la casa ma il paese intero, con il buio, i vizi e le superstizioni. I fratelli si passano il ruolo del coraggioso come un testimone nella staffetta, e continuano ad amarsi e ad accudirsi a vicenda anche nel momento estremo. Si inventano un mondo tutto loro che diventa simbolo di quello che non hanno conosciuto nella realtà: la foto di Antonella, tutta minne e culo, da tenere nella tasca dei jeans – anche se le donne sono tutte buttane – e un tappetino che, come quello di Aladino, diventa piattaforma di lancio verso l’universo.

Link all’indirizzo

sabato 6 marzo 2010

VERTIGINE 2010 - PARTE PRIMA

VERTIGINE – PARTE PRIMA

Vertiginosamente Auditorium!

di Katia Caselli

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4 marzo 2010: La prima edizione del festival “Vertigine”, diretto da Giorgio Barberio Corsetti, ha inizio. C’è da ammettere che “Vertigine” aveva già fatto parlare di sé nei giorni precedenti l’apertura: Una lunga discussione riguardante la scelta degli spettacoli selezionati, ha visto protagonisti alcuni critici e addetti ai lavori della scena capitolina, rendendo per noi, ancor più intrepida l’attesa. 420 le proposte arrivate; 15 gli spettacoli selezionati, tra cui molti dei quali, già passati in precedenza per i palcoscenici romani.

Una domanda sorge spontanea: La scelta è si di qualità, ma in un festival che vuole esser piattaforma per giovani registi, ha davvero senso mostrare ciò che un abituale spettatore di teatro ha già potuto ampiamente assaporare durante le stagioni passate (2007/2008/2009)?

Non vogliamo trovare in queste righe una risposta; certo è però, che, grazie a Vertigine, finalmente gli spettacoli di casa nostra hanno avuto la possibilità d’esser stati visionati da una giuria internazionale ed uno di loro, il vincitore, arriverà addirittura ad incontrarsi/scontrarsi col tanto l’agognato pubblico estero.

Comincia la Kermesse:clip_image008

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Ore 18:00, Sala Petrassi: E’ qui che avviene il primo appuntamento. “Voilà” di Vincenzo Schino, ci porta in un mondo incantato, dentro la stessa struttura teatrale, dove, guardando mentre si è guardati, in una dimensione di disfacimento, è messo a nudo il farsi stesso del teatro. Di corsa ci si reca in Teatro Studio. Ore 19:30 “Dux in scatola. Autobiografia d’oltretomba di Mussolini Benito”. Questo è quello che adoro dei festival: correre da una parte all’altra, da un’estetica al suo esatto opposto, per il trionfo del nostro lato voyeristico, e tornare a casa completamenti sfiniti e sconfitti. Se la fortuna aiuta gli audaci, tra di essi si sono trovati gli spettatori che hanno avuto la possibilità di assistere a “Remember me”, di Sineglossa, spettacolo a posti limitati. Da una parete di legno spunta improvvisamente una giovane donna, una diva, che, spogliata radicalmente delle sue vesti, regalerà allo spettatore il suo intraprendere un processo di trasformazione/trasfigurazione che mano mano toglierà ad esso la possibilità di cogliere e distinguere la sua umana figura: uomo e donna, dicotomia alla base della vita umana, vicini e inseparabilmente afferrabili. In Remember me, nel momento in cui si cerca la forma dell’uno, subito ci si ritrova quella dell’altro; un’esperienza visiva davvero fantastica. Alle 21:30 il Teatro Studio ospita “Sequestro all’italiana”, di Teatro Minimo. Lo spettacolo ci fa sorridere ma lasciandoci un profondo senso di amarezza: che strano, proprio durante una manifestazione, qual’è “Vertigine”, dove la ricetta è interamente composta da prodotti italiani, ci ritroviamo con Santeramo e Sinisi a riflettere proprio sul significato di questa italianità. Con un giro di boa infine, ritorniamo nel luogo dove tutto ebbe inizio. Ore 22:45, Sala Petrassi: Babilonia Teatri presenta “Made in Italy”. Che dire, quella che vediamo, è la nostra Italia. Si conclude così il primo giorno. Se, a detta di qualcuno, il mondo è stato creato in 6 giorni, qui “Vertigine” è riuscita, in un sol dì, a restituire una panoramica della sperimentazione italiana che ben soddisfa la nostra voglia di fagocitare teatro.

lunedì 1 marzo 2010

DELITTO PASOLINI – UNA CONSIDERAZIONE INATTUALE - WAITING FOR SUPERSTAR

MpNews

Sguardo al progetto di epica reinterpretazione della summa pasoliniana del CKTeatro.

di Gianpaolo Marcucci

“Il mio sogno, è sempre stato quello di fare lo scrittore…”Comincia così, sopra le lastre di cemento dell’idroscalo di Ostia, la storia di uomo, che insieme al suo amico fidato, decide di raccontarci come è andata veramente. Stiamo parlando di una morte, una morte inflazionata, masticata; una morte di quelle che poi fanno parlare, e rendono eroi.

Il morto è un poeta, grande artista, tanto artista da esser scambiato dai più, per intellettuale. E allora spranghe, sangue, potere, politica; una macchina blu, fiat 1100, targata Catania. La storia sembra che la sappiamo tutti, e infatti è così, la sappiamo tutti, ma è sbagliata. A fornire le prove, è la versione di Giuseppe Zigaina, il pittore amico ed esegeta, del poeta. Pasolini, Pier Paolo Pasolini, non è stato giustiziato. Non è stato eliminato dai poteri occulti attraverso un gruppetto di fascisti facinorosi. No, Pier Paolo Pasolini, pianificando minuziosamente a tavolino il giorno della sua fine, ha consacrato la sua vita di sommo artista, interpretando l’unica parte che poteva renderlo davvero immortale: La morte, quella sporca, violenta e sanguinosa.

E’ in questo modo che, Fabio Morgan e Leonardo Ferrari Carissimi, direttori artistici della compagnia CKTeatro nonché direttori della Sala Orfeo del Teatro dell’Orologio di Roma, concedono in una settimana di repliche, ad un pubblico davvero entusiasta, un’anticipazione di quello che sarà il loro prossimo epico spettacolo, “Superstar”. Delitto Pasolini, infatti, altri non è che la base concettuale da cui la ricerca dei due parte per giungere all’ambiziosa riscrittura totale dell’ultimo romanzo del grande Pier Paolo Pasolini, Petrolio. È un cammeo, uno spot, un’introduzione. Quanto basta comunque per intrigare, far riflettere e balzare dalla sedia, di fronte ad un Pasolini che non pare attore, ma risurrezione.

Di certo, se dapprima si poteva essere curiosi di veder messa in scena una tale rivisitazione, ora, a scheletro di fuori, la curiosità si è tramutata in bramosia impaziente. Bisognerà però aspettare fino a novembre per lo spettacolo in corso di costruzione, che vuole mettere il punto alla quasi impenetrabile bibliografia pasoliniana. E allora aspettiamo, sperando che nell’attesa, sia a noi concessa nuovamente la possibilità di riassaporare, insieme al CKTeatro, il punto di vista espresso in Delitto Pasolini; magari, proprio in vicinanza del tanto promettente epic-show Superstar.

martedì 9 febbraio 2010

ORBO NOVO ALL’AUDITORIUM PER IL FESTIVAL “EQUILIBRIO”

Arriva a Roma l’appuntamento annuale con la danza di qualità

di Gianpaolo Marcucci

Avete mai visto uno spettacolo completo? Uno spettacolo in cui parola e gesto, immagine e significato hanno un legame fisico e concettuale tangibile? Se vi siete persi la prima mondiale di Orbo Novo, ultima creazione del coreografo Sidi Larbi Cherkaoui, probabilmente No. All’interno del Festival da lui stesso diretto, l’unico festival che per soli venti giorni l’anno, nella magnifica cornice dell’Auditorium parco della musica di Roma, da respiro e linfa alla danza contemporanea Italiana, Sidi porta la sua fenomenale ideazione coreografica “Orbo Novo”, come un gentile presente, un dono di inestimabile bellezza per il pubblico romano.

La Sala Petrassi, tra le più adatte alla rappresentazione della danza nel nostro paese, ha ospitato una platea ghermita ed entusiasta.

Contornati da una scenografia mobile di una semplicità pari al suo geniale utilizzo, un gruppo numeroso di danzatori contemporanei mostra con naturalezza la storia di un’esperienza trascendentale. La perdita temporanea dell’emisfero sinistro del cervello di una donna, che prova l’esperienza della connessione universale.

Una reale assenza di individualità, un abbraccio energetico infinito, che la mette in condizioni di sentire il legame che esiste fra tutte le creature, gli oggetti e gli stati della terra. L’io, il pensiero, “la vocina che ci ricorda di fare il bucato” scompare nel flusso.

Quella fu la sensazione che provai la mattina in cui ebbi il mio Ictus

Orbo Novo porta sul palco il pionieristico concetto di “intelligenza collettiva”, e lo fa senza troppe moine da intellettuali. E’ uno spettacolo fresco, soprattutto nella prima parte. I danzatori sono una cosa sola, tra loro, e con ciò che li circonda. L’energia può essere toccata anche dalle prime file, e da quelle un poco più distanti.

Non manca niente. Parola, movimento, gesto quotidiano, profondità di concetto, emozione, immagine. A vedere quei corpi bellissimi, si perde la cognizione del tempo, forse perché il tempo, come la separazione dell’io, è frutto del pensiero, del nostro emisfero sinistro. Una qualità di movimento che rasenta la perfezione, rende l’occhio stupefatto. Consapevoli del proprio corpo come danzatori classici tra i più preparati, donne e uomini di tutte le etnie si lanciano in evoluzioni “realmente contemporanee” in cui il pavimento diviene parte integrante del proprio corpo (workfloor). Possono glissare per metri, creare forme surreali, fare salti di quelli che gli addetti ai lavori amano rivedersi alla moviola.

Sul piano visivo, e di ricerca, non c’è livello pari nella nostra povera Italia, dove ancora il contemporaneo si è fermato alle tecniche, fondamentali ma ormai anziane di Merce Cunningham e Marta Graham.

Lo spettacolo di Sidi Larbi Cherkaoui è davvero uno spettacolo riuscito, che lascia lo spettatore felice di essere andato a teatro. Ci auguriamo di rivederlo presto, magari prima della prossima edizione del festival.

giovedì 4 febbraio 2010

I PIAGNISTEI AL TEATRO ARGOT

Il giovane Regista Tiziano Panici porta in scena all’Argot una rivisitazione del testo di Berkoff “Kvetch”.

I tavoli “per bene” non si riconoscono dalla forma che assumono, ma dalla distanza dei commensali che gli stanno intorno, e il tavolo su cui apre la scena di Panici, lo si nota, è un tavolo per bene. Per bene è in vero la realtà che si rappresenta, la realtà dello spettacolo, una realtà di incomunicabile paura, e spasmodica ricerca di fuggire da essa. Kvetch è un testo fenomenale. Quattro individui alternano i loro stati di coscienza, creando situazioni di esilarante verità. Un tavolo, un letto, una scrivania, tutto ricreato con due piani affiancati. E’ il dietro le quinte della vita di che è schiavo di qualcosa; del lavoro, del matrimonio, del divorzio. La schiavitù prende la sua forza dalla paura, non esiste miglior strumento di controllo, e la paura, e ciò che muove o rende statici i personaggi. Stupisce Panici, per la padronanza con la quale dirige gli attori, decisamente virtuosi, attraverso le insidie di un testo esperto quale quello di Berkoff. L’illuminotecnica, semplice ma efficace, affiancata da una scenografia essenziale, esalta ulteriormente la “verità” dell’opera. Si ride, e lo si fa senza freni, perché il dato è nudo e crudo; ma poi si riflette, ci si emoziona. E’ davvero uno spettacolo che vale la pena di vedere quello del giovane Tiziano, che non tradisce le aspettative che pesano sulle spalle di un nome, certo noto, come quello del padre.

Dal 26 gennaio al 7 febbraio 2010,

Ore 20,45 – domenica 18,45

Teatro Argot Studio

KVETCH (Piagnistei)

di Steven Berkoff

regia Tiziano Panici con Ivan Zerbinati, Laura Bussani, Jacopo Bicocchi, Simone Luglio

Gianpaolo Marcucci

giovedì 14 gennaio 2010

LINARI SPIEGA LA GUERRA DI FLAIANO

Mp News

In occasione del centenario della nascita di Ennio Flaiano la Compagnia LABit organizza un mese di spettacoli incontri e conferenze all’insegna del teatro e della memoria

All’interno di un distinto salone borghese, il rampante presidente di una nazione non ben definita, si sveglia accartocciato da un sonno profondo per accogliere i suoi fedeli collaboratori, in occasione di una nuova e frizzante guerra da pianificare ed intraprendere. La lucida e divertente riflessione sulla natura umana che si vede sulla scena, è “La guerra spiegata ai poveri” di Gabriele Linari, che si rifà ovviamente al testo del grande Ennio Flaiano.

Lo spettacolo si presenta subito, inevitabilmente, come uno spettacolo “vecchio” ma non nell’accezione negativa che si usa dare a tale parola. La Guerra spiegata ai poveri è uno spettacolo letteralmente vecchio e possiede della vecchiaia tutte le note e tutte le sfumature.

Ad una ferma ed ironica determinatezza, si accosta una sensazione di vuoto, di paura e sofferenza, che spinge i personaggi a non riuscire che a guardare verso un futuro in cui rifugiarsi, un futuro dove la guerra è rassicurante, accogliente ed economicamente vantaggiosa. Guerra è una parola però e chi non conosce tale parola, con la sua ingenua liberta, è in grado di mettere, in un momento, in crisi ogni certezza. Così, un giovane ragazzo, chiede alla tavolata spiegazioni: “Scusate, non so cos’è!”

Le risposte al massimo portano il cappello, le domande fanno crollare palazzi di cemento. Il tavolo si riunisce, ormai ha un compito innegabile, dare al ragazzo la luce, fargli conoscere la guerra, la sua bellezza, la sua poesia.

Seguendo la scena, a suonare come un campanello atono inserito nel cervello, è una particolare sensazione. All’inizio non si capisce bene, ma poi, viene fuori. La percezione che l’autore sia prima di tutto uno scrittore e non un drammaturgo rende il testo a tratti acre, indisciplinato, denso di parole libere dalle consuete regole teatrali. Lo spettacolo comunque, nel complesso, grazie ad un’ottima consapevolezza di regia viene senza difficoltà avvertito come piacevole, chiaro e profondo.

Ma questa riflessione è una critica a Flaiano o a Gabriele Linari? A dir il vero nessuna delle due sarebbe davvero opportuna. A parlare vi è il pensiero: Di Flaiano si sceglie un testo che nonostante risulti ancora oggi attuale è redatto in un periodo storico lontano e di grande crisi. Sicuramente partorito grazie a quell’esplosione di sensibilità che solo la visione diretta della guerra può scatenare. Negli stessi anni George Orwell scriveva 1984; è come con in fughi sacri messicani. L’uomo è uguale all’uomo, nello spazio e nel tempo. L’attualità del testo è da attribuire alla genialità di un Flaiano visionario o al genocidio galoppante di buona parte dei valori umani degli ultimi anni? Le dicotomie risultano sempre trappole insidiose. E se fosse attuale perché le emozioni, le sofferenze e le paure dell’uomo sono le stesse di sempre?

Flaiano comunque sembra non poterne uscire pulito. Qualcosa non torna, come se in fondo il testo non piacesse neanche a lui. Per quanto concerne la regia, vanno a Linari innanzitutto attribuiti da una parte il coraggio e dell’altra la fortuna di portare in scena un autore tanto controverso e affascinante, in un momento storico così culturalmente anestetizzato.

Possiamo dire che il direttore della compagnia LABit fa perfettamente il suo dovere. Mette in scena il testo forse nell’unico modo possibile. Lo spettacolo non stravolge, ma descrive. E descrittivo non è forse lo stesso Flaiano nello spiegare la guerra? La tecnica è curata, i costumi sono curati, e non manca l’utilizzo di qualche interessante espediente registico. Notabile è la padronanza scenica e vocale di uno degli attori, Matteo Quinzi, che veste i panni del ministro della super-produzione.

Lo spettacolo, consigliato, è in scena alle 21:00 presso il Teatro Due di Roma fino al 26 Gennaio.

Gianpaolo Marcucci

12/26 gennaio ore 21:00 - Teatro Due

La guerra spiegata ai poveri

Autore: Ennio Flaiano Regia: Gabriele Linari Compagnia/Produzione: Compagnia LABit Cast: Sarah De Marchi, Gabriele Linari, Ottavia Nigris, Alessandro Porcu, Matteo Quinzi, Andrea Vaccarella