giovedì 27 ottobre 2011
INTERVISTA A CHIARA GUARDUCCI, autrice e regista dello spettacolo SUICIDE PROJECT
di Fanny Cerri
Dopo aver assistito alla messa in scena dello
spettacolo Suicide Project, al Teatro
Furio Camillo di Roma, mi presento alla regista, Chiara Guarducci. Al termine
di una breve conversazione, ci scambiamo i numeri di telefono e gli indirizzi
di posta elettronica. Una sua richiesta mi sorprende: “Sei su Facebook?”. Ecco
quindi nascere lo spunto per la mia prima domanda, nell’intervista che mi
concede:
FANNY CERRI/ Facebook,
nel tuo spettacolo, è molto presente: sembra essere messo in luce come un falso
sistema di comunicazione e come un mezzo solo apparente di espressione delle
proprie idee e preferenze. Però lo utilizzi tu stessa per metterti in contatto
con gli altri. Pensi che esista la possibilità di un buon utilizzo di questo
strumento o lo strumento stesso contiene in sé un baco di sistema?
CHIARA GUARDUCCI/ Suicide Project
è una rassegna provocatoria di manie, mode e falsi miti di benessere,
un'ironica sfilata dei manifesti e degli slogan di questa società
contemporanea, strafatta di televisione, spot e social network. Facebook
è solo una delle molteplici attività che inchiodano la giornata di Pinky al suo
circuito demenzial-claustrofobico, ben rappresentato dall'idea del videogame.
Quel che volevo passasse è la quantità parossistica, il fatto che il nostro
vuoto è numeroso, trafficato e spesso camuffato a festa. Noi ci stordiamo e ci
nascondiamo dietro mille cose. Per me la quantità è il sintomo principale di quest'era
frenetica e invadente e Fb rispecchia la quantità. Basti pensare alla
quantità di iscritti e alla gara al gran numero di contatti. A dimostare che
esisti. È evidente che la sua diffusione risponde a un'identità fragile e al
nostro esasperato bisogno di apparire, di mostrarsi, avendo l'illusione che
questo significhi esprimersi. Mi ha sempre fatto molto ridere il Mi piace,
di cui peraltro faccio largo uso. Io non sono immune, ho quasi tutte le
dipendenze che affido a Pinky, spesso molto contraddittorie tra loro, come
psicofarmaci e intrugli vitaminici. La vetrina di Fb è una delle
maschere di cui abbiamo bisogno per un confronto sempre più artefatto, easy
e protetto con gli altri e con
la vita, eppure è anche uno strumento indispensabile per chi lavora nello
spettacolo o per chi persegue un impegno sociale e una causa da sensibilizzare.
FANNY CERRI/ Pinky
è un personaggio che poco ha di umano. Non è libero di scegliere, di agire, di
sentire e di esprimere sentimenti autentici e individuali. E’ una sorta di
automa, che forse contiene in sé solo il germe di una rivolta inattuabile. Hai
immaginato questo personaggio come una realtà già insita nella società in cui
viviamo, come una proiezione futura verosimile o piuttosto come un incubo?
CHIARA GUARDUCCI/ Hai afferrato
perfettamente. Ma nessuno di noi è libero, siamo tutti un po' pinky: lui,
nella sua natura 'meccanica', agendo e ripetendo desideri di massa, svela
quanto siamo automi, spesso obbedienti alla stupidità collettiva. E' un
personaggio che ho inventato per prenderci in giro, mostrando quanto siamo
passivi e obbedienti. E questo ha in sé il germe di una rivolta. Pinky, per
ribellarsi, ha solo il suicidio; si suicida per non diventare uno zombie, per uscire dal sistema. Noi
ridiamo, ma portiamo a casa un sapore amaro, perché è un incubo infilato sotto
la pelle del presente. Riconosciamo quell'alienazione. Ma io ho voluto creare
uno spettacolo che divertisse, così le spine passano meglio.
FANNY CERRI/ All’inizio
dello spettacolo, Pinky inscena una danza gestuale che mima il suicidio.
L’esordio, quindi, così come il titolo, preannuncia già chiaramente la fine.
Pinky desidera davvero morire? Suicidarsi, per lui, è una scelta?
CHIARA GUARDUCCI/ È il suo sogno
irrealizzabile. Essendo un fumetto, si rialza sempre. Non c'è soluzione per
questo buffo e sciagurato personaggio: lui sceglie continuamente il suicidio; è
l'unico modo che ha per rompere la sua quotidiana catena di montaggio.
Tuttavia, è un suicidio ripetuto ad oltranza e seriale, come tutti gli altri
gesti, dunque comicamente e tragicamente ingoiato nella catena stessa. E’ qui
che vince la cifra paradossale e grottesca di questo spettacolo.
FANNY CERRI/ Quali
problemi pone a un autore di teatro scrivere un testo che ha uno sviluppo
drammatico volutamente molto flebile e che rappresenta un succedersi di azioni
tutte simili le une alle altre? Hai temuto, in fase di scrittura, che il
pubblico potesse non reggere a una ritmica e a una fraseologia così uniformi?
CHIARA GUARDUCCI/ Ho desiderato
esasperare il pubblico, provocarlo, giocarci. La ripetizione crea effetti
comici e paradossali. Pinky doveva essere un tormentone: è nel suo DNA. E’ così che mette in ridicolo tutti i
tormentoni che ci propinano, sparando
la sua pinkymania! Ma c'è uno spiazzamento verso il finale, una rottura
con l'atmosfera e la struttura precedente. Quando Pinky mangia pillole come
popcorn e la voce che lo ha accompagnato fino a quel momento si fa feroce, si
apre la parte finale: una partitura di gesti rituali scandita dal silenzio,
tanto che lo spettatore si trova precipitato in una zona profonda, in un
sentimento che non aveva previsto.
FANNY CERRI/ E’
stato difficile dirigere un’attrice, impedendole di esprimere emozioni per
tutta la durata dello spettacolo?
CHIARA GUARDUCCI/ Elisa è stata
molto brava, ha colto subito l'appartenenza di questo personaggio a una
dimensione fumettistica e dunque la necessità di essere privo di psicologismi
ed emozioni. Addirittura privo di una sua voce. Abbiamo lavorato molto sul
corpo. L'impassibilità del volto non è facile da ottenere, ci vuole una
notevole concentrazione. La precisione di Elisa, la pulizia dei suoi movimenti
è stata fondamentale. Mi piace quando l'attrice non esprime emozioni e lo
spettatore le prova, come nella seconda parte dello spettacolo. Quando c'è la
vestizione e l’apparecchiatura natalizia, quando le foto coincidono con una
scarnificazione, con una nudità spaventosa, e gli oggetti di festa proiettano
le loro ombre lugubri, dentro si spacca qualcosa. Questa è la magia del teatro.
FANNY CERRI/ Come
si inserisce Suicide Project nella tua produzione artistica complessiva? E’ la
scoperta di un linguaggio nuovo che continuerai a sviluppare o immagini che
resti un punto di discontinuità? Era già presente, sotto qualche forma, nei tuoi
lavori precedenti?
CHIARA GUARDUCCI/ Sicuramente era
presente una tara nichilista e un forte senso del grottesco ma, in effetti, mai
come in questo lavoro ho messo da parte la mia scrittura. Il testo è
strettamente funzionale alla performance e quasi del tutto privo della carica
poetica che contraddistingue il mio percorso. Devo ammettere che mi sono
talmente divertita con questo progetto, il primo in cui ho una parte così
attiva (voce off in diretta), che ho già in cantiere una sorta di sequel
o comunque un ampliamento di nome SUICIDE FAMILY che, come si capisce dal
titolo, sarà la parodia della famiglia ideale.
FANNY CERRI/ Nel
tuo spettacolo, giochi con l’appiattimento dell’immagine e con la distanza
emotiva fra l’attrice e il pubblico. La vera quarta parete, di cui tanto si
dibatte in teatro, è in realtà lo schermo di un computer?
CHIARA GUARDUCCI/ Ho cercato di
realizzare un fumetto vivente nel trip del suo circuito ossessivo. Ho
desiderato che il pubblico lo sentisse chiuso in una gabbia immaginaria, con
troppo spazio a disposizione. Non ho pensato alla quarta parete, ma non credo
possa mai coincidere con lo schermo di un computer.
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