lunedì 26 settembre 2011
IL MIO REGNO PER UN CAVALLO
di Paola Monaco
Plasmato da rozzi stampi, storpio, claudicante e saturo
d’odio verso un mondo che non ama e che
non lo ama: questa è l’immagine di Riccardo III che Shakespeare vuole presentare
al pubblico per indagare sull’odio nella storia, intesa come corso degli
eventi, e sulla storia dell’odio, nella sua universalità.
Lo spietato
sovrano, assetato di sangue e mai sazio di vendetta, è una figura centrale nel
conflitto tra la casata degli York e quella dei Lancaster. Egli incarna quella
deformità che, seppure in fogge più subdole e celate, ha caratterizzato i
potentati inglesi del XV secolo. Ma la malvagità di questo personaggio è fortemente
dissonante anche rispetto a un ambiente comunque corrotto. Essa ha qualcosa che
disturba, che crea un’inquietudine interiore, una fastidiosa sensazione di
disagio. Riccardo III è il marcio che c’è in noi, è il mistero dell’ambiguità
del male fatto persona. Non c’è traccia di buonismo in lui. Della sua
mostruosità, sia fisica che morale, se la ride di gusto, con ironia: «Mi sono ingannato fino a oggi sopra la mia
figura. S’ella (Lady Anna) mi trova,
al contrario di me, un uomo di straordinario fascino, m’accollerò, costi quel
che costi, la spesa di uno specchio». A lui non piacciono gli svaghi, le
mollezze, né tanto meno la civetteria delle donne (un pregio, oggigiorno). Non
gli rimane che guardare la sua ombra e ragionare.
L’ombra è
auto-negazione, il suo non-essere, il rifiuto della propria persona. Tuttavia,
è probabilmente l’eccessiva contemplazione di questo lato oscuro che lo porta a
un cortocircuito mentale, spingendolo ad agire con tanta efferatezza. Lo
sciagurato sopprime impietosamente tutto che rappresenta un ostacolo al
raggiungimento della meta: il trono, ossia l’affermazione di sé, il riscatto.
Parenti stretti, fedeli servitori, validi giovani e perfino la moglie diventano
agnelli immolati all’altare della sua bramosia. Se sia solo l’avidità di potere
a condizionare il suo agire, solo complessi studi psicologici potrebbero
stabilirlo. Potremmo azzardare l’ipotesi di un condizionamento ontogenetico che
lo ha marchiato sin dalla nascita.
Chi sarebbe davvero la vittima, a questo punto: chi opera il male o chi ne
rimane affascinato?
Nel Riccardo III
di Mario Carniti è ben evidente la cinica
consapevolezza del proprio limite, che lo relega ai margini del socialmente
ammissibile. «Sì, le ho ucciso marito e
padre, ma che importa?». Egli vive sempre al confine tra vita e morte,
follia e concretezza, scaltrezza e alienazione. Anche le macchine sceniche,
frutto dell’ingegnoso lavoro di Gerardo
Espinoza e Davide Ciancichi, sono
concepite per segnare passaggi cruciali tra due dimensioni limitrofe: la macchina
della tortura, dove il fratello Giorgio e Lord Hastings perdono la vita; la
piattaforma scorrevole, che sembra sempre fermarsi sul ciglio del palcoscenico;
il carrello della torre, tomba del giovane principe e di suo fratello. La
macchina ha un ruolo di moderno Acheronte, perché segna il passaggio all’altra
dimensione, che non è solo la morte, ma l’ignoto universo della coscienza e dei
suoi fantasmi. Riccardo III, come il Faust di Goethe, dimostra, alla fine
dell’opera, di essere umano, di
provare delle emozioni, di aver paura. Ricordiamo, a tal proposito, il
disperato grido: «Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!», espressione
della volontà di fuga di fronte alla sua desolazione e solitudine. Si potrebbe
parlare di una sorta di redenzione che, non a caso, arriva sempre a ridosso
dalla morte, quando il limite va
necessariamente sorpassato.
Maurizio Donadoni è a suo agio nei panni del protagonista:
beffardo, spavaldo, sprezzante di ogni morale, conferisce quel tocco canzonatorio
al malvagio che lo rende del tutto singolare.
RICCARDO III
Regia di Marco Carniti
Traduzione di Enrico Groppali
Dal 2 al 18 settembre
2011, h. 21.15, al Globe Theatre di Roma
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