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lunedì 18 aprile 2011

La trilogia degli occhiali, parte seconda


Il castello della Zisa

di Irene Corradino

Due suore.  Tenacemente coordinate in movimenti convulsi, sotto l’emblematica presenza/protezione di quattro croci pendenti dal soffitto, ondeggianti e rimbalzanti. L’atmosfera è macabra, inquietante, il silenzio prende voce in un assordante, indecifrabile e oscuro bisbiglio spasmodico che persiste dalla sagoma della preghiera a un’incolore litania. Le donne, simbiotiche, indossano medesimi occhiali, hanno lo stesso sguardo, sono identiche negli spostamenti, nel rapporto con lo spazio, tanto da apparire un'unica inscindibile massa uniforme, una singola entità.  In scena: giochi, birilli e palle colorate, due bambole meccaniche suonanti, masse indecifrabili coperte da lenzuoli. Un ossimoro, in apparenza, è l’accostamento del repertorio ludico e la frustrante presenza bigotta delle religiose, in un ambiente di petulante ordine, narrante un cosmico malessere. Le luci a un tratto fioche, segnano le ombre tintinnanti dei corpi volanti da un punto all’altro del palco e presagiscono una metamorfosi di senso: un disvelamento improvviso di un’incognita figura fino ad allora celata da un immacolato telo, un ragazzo inerme, degente, pregno di debolezza, portatore di uno sguardo cieco. L’attenzione della coscienza è volta tutta su di lui. Il pubblico è ipnotizzato dal suo cospetto: Le donne lo puliscono, lo pettinano, lo scuotono e lui malinconicamente immobile, nel suo pigiama colore del cielo, fissa un punto, quasi come a raccontare l’indicibile con il silenzio del dolore. La sua comunicativa immobilità crea violenti movimenti involontari dell’animo. Lui è la disperazione. Le suore cercano di stimolare la sua reattività,  ipotizzandosi circensi con giochi di birilli, sfere colorate e acrobazie con hula-hop. Provano e riprovano. In modo convulsivo con lo scopo di ottenere una sua reazione. Ma i fallimenti sono infiniti e la frustrazione aumenta sempre più fino a creare uno squarcio tangibile che porta al litigo, una scissione di quell’atomo-donne, che adesso divengono tante, si dimenano, si spingono, si schiaffeggiano, urlano e a tratti si disperano. Come a dire che il dolore crea dolore. E null’altro più. La tensione emotiva diventa una agglomerato di crisi e possibilità, l’unica certezza sul palco, la simbiosi dei loro occhiali si distrugge, le lenti cadono, si aprono nuovi mondi. Il ragazzo timidamente abbozza dei movimenti, delle fiacche e quasi impercettibili controrivoluzioni del corpo, viene rotto il guscio della verità: il suo nome è Nicola, cerca ostinatamente la zia. Durante l’infanzia viveva con lei nel quartiere popolare della Zisa, risiedeva di fronte ad un castello, lo guardava e sognava di distruggere i mostri, di cacciare i diavoli  e salvare la principessa, ne era il guardiano, era il prode paladino del bene. Ma un giorno venne scacciato dal suo impero, fino a restare imprigionato per sempre nel delirio del suo mancato essere guerriero. Senza parte e senza gloria, privato di tutto tranne che dei suoi desideri, cade per un tempo indecifrabile in un apparente oblio, un mutismo assordante, giudice delle urla dei suoi perché; poi cade a terra, con tormento, si torce, si contorce, si colpisce, si dimena, si avvelena di rimpianto. Gli occhiali sfilano via a terra e una nuova visione della presenza del passato, appare.  Nicola affronta il peso di un tempo perduto fatto di spensieratezza che mai ritornerà se non nella pace del ricordo.  Decide così di imbattersi senza più rancore in  un epoca interiore che porti il nome del passato e del divenire, della nostalgia per ciò che è stato e della speranza che una favola diventi realtà. Ora ha degli occhi nuovi per sognare un nuovo castello, da cui non sarà mai scacciato, se stesso.

Testo e regia: Emma Dante
Con: Claudia Benassi, Stéphanie Taillandier, Onofrio Zummo
Luci: Cristina Fresia
Foto e grafica: Carmine Maringola
Produzione: Sud Costa Occidentale, teatro stabile di Napoli, crt centro di ricerca per il teatro
Collaborazione: théatre du rond-point

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