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lunedì 18 aprile 2011

La trilogia degli occhiali, parte prima

Acquasanta

di Irene Corradino

In scena,  un uomo incatenato a corde che dall’alto lo dirigono come un burattino, all’estremità di esse tre eliche, manubri di passioni e tristi viltà. Il suo mondo a prua di una nave tanto immaginaria nella tangibilità, quanto reale nella necessità della memoria, nell’esperienza di lunghi anni forgiati all’insegna di un amore ossessivo per il mare.

Il personaggio è inquieto, delirante, sommerso dalla schizofrenia,  immenso nella passione.  L’immagine del marinaio di fronte ai nostri occhi, bussa alle porte della coscienza, con la voce della psicosi, con l’emozione suscitata dall’altalenante scambio di personalità: mezzo mozzo e capitano. La percezione del dolore dell’ uomo in scena è pregnante di verismo, è possibile sentirne le dinamiche interiori, quelle proprie dell’emarginazione.

Lenti vengono indossate e poi riposte come mezzi per ottenere mondi diversi, per entrare nell’altro e poi uscirne,  per schivare lo sfinimento dell’incomprensione.  Sono lenti “intelligenti” “sopraumane”  dotate di un potere intellettivo tale da riempire lo spazio circostante di radici quadrate, queste le parole citate dal protagonista, pronunciate in un dialetto quasi incomprensibile, espressioni singhiozzate tra il sentirsi un eroe ed essere un emarginato. Si sentono le voci della ciurma, del capitano, lo chiamano “O Spicchiato”, a causa delle sue grosse lenti che fanno riflesso. Lo deridono, lo maltrattano, lo violentano. Lo abbandonano su terra ferma. Lui che non ha mai preso licenza, che è senza casa, senza amici, senza divertimenti. Lui e il suo unico amore per il mare, tanto da dire che la terra è un illusione e che il mondo va via quando la nave parte.  Lui imperterrito fa poesia della sua angoscia, pronuncia con schiuma e bava alla bocca del lavoratore sfruttato, che disgusta i  borghesi,  il calore del sacrificio, che fa onore a scrittori e poeti,  immagini oniriche che diventano vive, che ad ascoltarle con ragione, sembrano irreali, che nel sentirle empaticamente , diventano l’unica verità possibile: “… tentacoli  colorati del polipo arlecchino, meduse gigantesche che si intrecciano nei raggi del sole, il pesce palla che dentro di sé porta il passato da un lato, e il futuro dall’altro, il Cristo di Rio che si tuffa a petto aperto nel mare e un iceberg che si scioglie in lacrime di cristallo nell’abisso… “ Su di sé , il ticchettio  di stelle che segnano lo scandire del tempo,  ma non invecchia la sua Passione, quando sta in prua, con lo sguardo verso il divenire, fino a dichiarare che il vero amore, come il mare, è impalpabile ed egli è fidanzato con l’infinito. Il mare è sacro, gli schizzi delle onde che violenti gli si prostrano al viso, gli conferiscono  tenacia nel superare le avversità,  perché l’acqua è benedetta,  perché è vita,  corpo del mare e dell’universo,  è Acquasanta.  Adesso però , l’eroe è solo, su terraferma e intravede la distanza dalla sua eterna navigazione, l’abbandono della nave,  è invivibile, un peso insormontabile e  realizzando l’avvenimento della fine,  impazzisce, sente,  adesso più che mai,  che la realtà lo deride, si fa beffa di lui, folle amante sognatore e così senza più lacrime e cuore continua a dondolare nel ricordo nella  memoria del proprio amore.

La performance di Carmine Maringola,“O Spicchiato”,  è magistrale, l’incisività della mimica e l’intensità delle parole,  fanno da padrone,  la versatilità del linguaggio è fluida nell’ incarnare personaggi opposti dell’animo, e le sue capacità camaleontiche varcano il sogno e la realtà. Fa clamore la spontaneità dell’interpretazione tanto da credere, tornando a casa, che “O spicchiato”, lo si è conosciuto davvero.

Testo e regia: Emma Dante
Con:  Carmine Maringola
Luci:  Cristina Fresia
Foto: Giuseppe Distefano
Produzione: Sud Costa Occidentale, teatro stabile di Napoli, ctr centro di ricerca per il teatro
Collaborazione: théatre du rond-point

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