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mercoledì 27 aprile 2011

HOMO HOMINI LUPUS

di Federico Mattioni


Un corpo che cade alla ricerca di un posto. Poi la liberazione/lacerazione delle vesti.
Il corpo nudo di fronte alle immagini (guida?) della tv. Ogni gesto, ogni situazione/condizione alla ricerca di un senso, qualora e laddove ce ne fosse.
Alcune voci della coscienza si levano dal baratro dei sensi. Doversi mascherare per essere qualcosa che la società vuole, qualcosa che non gradisce il proprio Io. Una coscienza. La coscienza di mettersi a nudo senza vergogna. Nemmeno quando il corpo, come fosse meccanizzato, inizia a contorcersi in uno spettacolo dove l’uomo, l’attore, ridotto ad una specie di marionetta nelle mani del destino e dei media, entra in crisi d’identità, e sfoga la propria frustrazione di disadattato, di maladjusted del contesto, in una danza di assemblamento e contenimento delle proprie caratteristiche interiori.
La luce, le voci, i suoni, la musica e una candela a lasciare un soffio di speranza a cui prostrarsi e verso cui chiedere un aiuto e una ragione.
Bryan Ferry che tenta di emergere nei rimasugli di una Slave To Love, Elvis Presley che prepotentemente si appropria delle gambe dell’uomo per fargli indossare delle Blue Suede Shoes e stravolgergli il passo, il dolore mutante del brano Hurt dei Nine Inch Nails al momento decisivo, e un balletto a senso unico Singin’ In The Rain senza via d’uscita, nella reiterazione dei gesti e delle movenze consegnate all’uomo dalla tv della malora.
Homo Homini Lupus è uno spettacolo di teatro-danza con un solo attore al centro della scena, al centro di un folle intrigo buio, nauseante, disperante ed intrigante. Il tutto nel senso “cronenberghiano” del termine, mentre l’attore riporta alla mente, vagamente dal punto di vista fisico, la voce dei R.e.m. Michael Stipe. In questo si denota tanto sentimento acid-rock da gettare via dal disgusto situazionale.
La pioggia dei sensi è arrivata, ha lavato via il sudore dal corpo con l’ausilio del rossetto, e attende impantanandosi nella melma al passo coi nostri giorni, dove la diversità è ammessa solo se conforme ai giochi dei grandi. 


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