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lunedì 1 agosto 2011

DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO


di Paola Monaco

Che senso ha mettere in scena, oggigiorno, il Grande Inquisitore di Fëdor Dostoevskij? Quali interrogativi il regista Francesco Zecca vuole smuovere nelle nostre coscienze? Perché egli resuscita questo vecchio novantenne, vitale e ostinato, incarnato da un’altrettanto energica Lucrezia Lante della Rovere? E, soprattutto, come mai tutta questa rabbia nell’incontrare nuovamente Cristo, a quindici secoli dalla sua morte, nel bel mezzo dei roghi della Santa Inquisizione? Lo spiega il protagonista con le sue stesse parole: Anch’io volevo entrare nella schiera dei tuoi eletti. Ma mi ricredetti e non volli seguire la causa della follia. Tornai indietro e mi unii alla schiera di quelli che hanno corretto l’opera tua. Buone intenzioni, debolezza, rancore, vile compromesso. Il regista ci ricorda che l’uomo è anche questo.
L’anziano giudice è tormentato dallo sguardo dolce e penetrante del Figlio di Dio che, da lui stesso imprigionato, lo ascolta senza proferir parola. Egli teme che il potere temporale della Chiesa venga messo in crisi da questo inaspettato ritorno. Lo dimostra alzando la voce e gesticolando come una perfida strega nel pieno di una furibonda esplosione d’ira, circondata dal suo codazzo di sottomessi cortigiani che, muovendosi all’unisono a mo’ di bestiali marionette, le obbediscono come docili pecorelle.  
Dare un giudizio etico sull’Inquisitore è tanto arduo quanto discernere il Bene dal Male, soprattutto in tempi di grande confusione morale, in cui non essendosi potuto fare in modo che quello che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quello che è forte diventasse giusto. La polemica implicita nella rappresentazione non è solo circoscritta all’ambito religioso, ovviamente. Essa si estende a ogni campo in cui l’umanità, così fragile e ribelle, è chiamata a operare. In apertura di spettacolo, l’attrice, sorniona e ironica, scende tra il pubblico proprio per descrivere questa zona grigia, questa grossa palude, questa entità senz’argini in cui l’uomo si perde: l’ambiguità. Poi sale in cattedra, indossa un manto luminoso e si trasforma in una sorta di moderno fariseo, che tenta di mettere il profeta in difficoltà, con atteggiamento ostile e sfrontatamente beffardo. Con fare diabolico, sciorina melense parole ammaliatrici, ricordando le tre tentazioni del deserto come rivelatrici delle uniche forze capaci di soggiogare l’uomo: miracolo, mistero, autorità.
Non di solo pane vive l’uomo? Il pane celeste per il popolo? Riduceteci piuttosto in schiavitù, ma sfamateci! Perché destinarlo alle res aeternae, se è stato creato così limitato? L’uomo aspetta passivo l’evento sensazionale per decidere a chi asservirsi, non sapendo gestire la propria libertà. Meglio la tranquillità e la morte, piuttosto. Si impadronirà della libertà degli uomini solo chi saprà rendere tranquille le loro coscienze. Egli vuole vivere in uno stato illusorio di infantile felicità. La conquista del potere al prezzo della Verità è la lusinga cui cede l’Inquisitore che, pur emozionato dal bacio amabile di Gesù, rimane fermo sulle sue posizioni.

Benché il protagonista risulti sgradevole, nessuno, al termine della performance, può sentirsi totalmente estraneo alla sua lotta interiore. Si prova quasi disagio a guardare dentro se stessi e a riconoscere la propria natura, eterna e misera al contempo.
A Lucrezia Lante della Rovere, la responsabilità non facile di scuotere gli astanti dal loro torpore. E ci riesce, grazie all’intramontabile fascino delle parole dell’autore, che da sole bastano a provocare negli spettatori un terremoto di emozioni e una profonda riflessione esistenziale.

Il Grande Inquisitore
Da I Fratelli Karamazov di F. Dostoevskij
Con Lucrezia Lante della Rovere
Regia Francesco Zecca

24 luglio 2011, Giardini della Filarmonica
Rassegna I Solisti del teatro, 14 - 29 luglio, 2011

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