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domenica 7 marzo 2010

VERTIGINE 2010 – PARTE TERZA

VERTIGINE 2010 – PARTE TERZA

di Gianpaolo Marcucci

Giungiamo dunque al terzo e ultimo giorno del festival. I toni si abbassano un po’ ma la qualità rimane la prerogativa principale. Solo ora, comunque, si comprende appieno che l’intento di Vertigine era quello di fornire al mondo (ricordiamo la numerosa giuria internazionale) e ad un pubblico non per forza abituato a questo tipo di lavori, uno spaccato del teatro di ricerca Italiano. Non c’è quindi da stupirsi se alcuni lavori sono risultati più interessanti ed altri meno; se alcuni lavori fanno uso smodato della parola, ed altri delle immagini, o del movimento; e ancora, se alcuni lavori sono sconosciuti, ed altri già più che varati dagli addetti ai lavori. Vertigine è un Festival, una piattaforma, un luogo che si trasforma in occasione. A 15 compagnie emergenti, è stata data la possibilità di esibirsi con i propri lavori migliori, in uno degli spazi più belli e completi della scena italiana. L’auditorium è stato cornice di un’esperienza artistica e formativa di altissimo livello. Finalmente il pubblico romano, ha avuto la possibilità di fare una vera full immersion in quell’avanguardia italiana che un po’ per vezzo, un po’ per necessità, è abituata a calcare solo un certo tipo di palcoscenici. Giorgio Barberio Corsetti rompe così l’equilibrio, donando al parco della musica di Roma, quelle ali necessarie a superare la vertigine snob dell’altezza e a volare verso gli orizzonti della sperimentazione. Alleghiamo due piccole riflessioni su quelli che crediamo possano essere i vincitori della terza serata.

- I will survive di Giorgia Maretta e Andrea Cavallari

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Tra le semidesertiche distese di un pianeta post-umano, strutture incoerenti di materiali riciclati si assemblano e compongono alla ricerca di volumi efficaci. E’ la lotta per la sopravvivenza. L’organicità dell’inorganico è un concetto che si respira; forme apparentemente inanimate, che cercano di raggiungere, tassello per tassello, un’agognata stabilità. Si rievocano le macchine, ma sono macchine nuove. Collaborazione è una parola che emerge. Il contributo di ognuno per il fine comune, fare un passo avanti, uno alla volta, o magari uno solo, alla ricerca continua di un nuovo equilibrio. Ricordando un po’ AIBO e un po’ Wall-e, dei piccoli robot impacciati inscenano un freddo ma simpatico giuoco di relazioni. Comunicano, si interfacciano, si aiutano; sono loro ora i nuovi abitanti. “Sono” però è forse la parola sbagliata. Una volta raggiunto l’obiettivo infatti, le due componenti, senza guardare indietro, tornano a far parte dell’organismo madre. Quello che prima sembrava un cumulo di resti inanimati, una città di baracche di cartone, ora è diventato un’unica massa viva che avanza. Il passaggio da giocoso a inquietante è breve. Il totem cammina, viene verso di noi, ci sovrasta. Qualcosa non va però, forse un ingranaggio, un circuito, o una bottiglia di plastica. L’equilibrio viene a perdersi e il mostro buono crolla su se stesso, tornando ad assomigliare a quell’agglomerato senza vita apparso all’inizio. Tutto tace, il gioco potrebbe ricominciare da capo, all’infinito, ma l’applauso imbarazza le scatole, e dal cartone, escono tre provati individui che ringraziano per il caloroso apprezzamento.

- Periodonero della compagnia Cosmesi

Di Eva Geatti e Nicola Toffolini

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Cosa succederebbe se da un momento all’altro scomparissero i colori? Se le uniche scale cromatiche diventassero quelle dei grigi, e non si riuscisse più a distinguere nulla se non la differenza tra luci e ombre? Di sicuro, una cosa accadrebbe. I protagonisti diverrebbero inevitabilmente il bianco e il nero. Le dicotomie però sono gabbie asfissianti, è inevitabile, per vivere su uno sfondo bianco, non si può che diventare neri. Così un’energica figura femminile, silhouette di se stessa, pur cercando in tutti i modi di essere “altro”, di opporsi, di fuggire dalla massa di sagome uniformi che circondano i suoi bordi, si trova a non poter fare a meno che assorbire lentamente dentro se stessa, tutto il nero che governa il suo mondo. E non bastano le grida, le proteste, le distrazioni o le balene; in un periodo nero tutto sembra più difficile, per scalfire un poco il buio ci sono cavi interminabili da snodare e poche lacrime possono cancellare tutto ciò che si era costruito. Così dopo una deludente giornata passata a cercare un’uscita che non c’è, che cosa fare se non fermarsi un attimo e lasciarsi staticamente mangiare dalla propria ombra?

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