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mercoledì 2 marzo 2011

I tropici di Virgilio Sieni

Tristi tropici. Immersi in una profumata nuvola bianca, gli spettatori intravedono una danza tribale, scattosa, coinvolgente nella sua complessa ripetitività; la musica elettronica che l’accompagna sembra arrivare direttamente dalla terra, in una sfida comunicativa che si ripercuote su più sensi contemporaneamente.

La danzatrice ha la bocca dipinta di rosso, provocando nello spettatore occidentale un sentimento di compartecipe sofferenza fisica. Si tratta invece di un modo di truccare il volto: il modo delle tribù oggetto delle riflessioni di Lévi-Strauss nel suo saggio Tristes tropiques, sceneggiatura intellettuale di questa creazione di Virgilio Sieni.

Prendendo le mosse dal famoso antropologo, il coreografo vuole indagare le radici profonde dell’umanità, ritornando a queste comunità arcaiche, dedite alla pratica della pittura corporale, che è in primis atto culturale. Pur essendo totalmente immerse nella natura e pur convivendo a stretto contatto con i più disparati animali, spesso presenti sulla scena, queste popolazioni manipolano il loro corpo: primo segno di una creatività tutta umana, che fa del corpo un oggetto d’arte.

Come in un ovattato e nebuloso ventre materno, si assiste a coppie di danzatrici, molto eterogenee per età eppure omologate nell’abbigliamento, che si prendono per mano, giocano, si sussurrano informazioni, forse consigli sulla vita, di cui si sente l’importanza di essere informati.

Si muovono ora energiche e forti nei loro gesti fluidi, ora combattendo contro una pesantezza quasi atmosferica: la fatica del movimento rivela la difficoltà della ricerca dell’identità umana. A tratti viene da chiedersi se siano uomini o animali: soltanto attraverso la mediazione di una cultura tramandata dalle donne può avvenire la riconciliazione di due mondi, quello selvaggio indigeno e quello razionale occidentale, nell’antica unità perduta.

Partecipi di un immaginario primitivo ed ancestrale, le danzatrici dialogano tramite i loro corpi, dandosi indicazioni indispensabili, come quando la più anziana suggerisce lo spazio disponibile alla danzatrice non vedente, tramite il suono del respiro. È palpabile l’angoscia del pericolo e della dipendenza, accentuata dalle luci intermittenti.

Bisogna, quindi, fidarsi dell’altro se non si ha la capacità di vedere: affidarsi allo sguardo diverso e potente di una saggezza arcaica. Forse solo rendendosi invisibili, mimetizzando il volto con un trucco nero, si diventa in grado di guardarsi davvero attorno.

Virgilio Sieni, colto coreografo, riesce a comunicare tutto questo, fornendo idee estetiche che danno al pensiero molto materiale, grazie ad un ensemble di musica, luci, costumi, elementi scenici e ovviamente danza, di forte impatto emotivo.

L’intellettualismo, forse inevitabile in uno spettacolo così pieno di rimandi, è spia della volontà di comunicare una messaggio importante e profondo.

Ludovica Marinucci

Ideazione, coreografia, scene Virgilio Sieni Interpretazione e collaborazione Simona Bertozzi, Ramona Caia, Elsa De Fanti, Dorina Meta, Michela Minguzzi Musiche originali Francesco Giomi luci Marco Santambrogio costumi Lydia Sonderegger maschere ed elementi scenici Chiara Occhini allestimento Francesco Pangaro

In scena al Teatro Palladium di Roma, il 26 e 27 febbraio 2011.

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