
venerdì 15 luglio 2011
LO SCRIGNO DI SMERALDO DELLA FILARMONICA

di Paola Monaco
I Giardini della
Filarmonica, a due passi da Piazza del Popolo, si vestono, in questi
giorni, delle loro sfumature più belle. I colori di questo angolo di paradiso, aperto
al pubblico dalle 17 fino a tarda sera, includono quelli di varie bandiere
nazionali (Francia, Norvegia, Polonia, Italia, Iran), qui intervenute a
rappresentare la bellezza delle loro terre.
Musica, arte, film, dibattiti danno il loro peculiare contributo
alla manifestazione I Giardini di luglio,
rendendola speciale strumento di ristoro dell’anima.
L’Italia parla di sé in dialetto siculo, con la voce
intensa e profonda dei Fratelli Mancuso.
Una sorta di nenia, un lamento sacro, quello che scandisce il lento procedere
dei Misteri nelle processioni, accompagna
il racconto delle vicende di una terra ricca di contraddizioni. Il loro canto,
radicato nella tradizione popolare, ha una personalità del tutto singolare: fedele
al folclore, ma aperta alla rielaborazione, benché priva del minimo accenno al
compromesso col mercato musicale. Gli
strumenti, dalla ghironda all’armonica, dalla darabuka al saz, assieme però
alla moderna chitarra, sono l’emblema di questa fusione del moderno con il
passato, quest’ultimo inteso come bene raro e prezioso da custodire. L’impasto
di canzone popolare, jazz, musica medioevale e arabesques rendono la raccolta Cantu,
innanzitutto, un incanto. Le parole,
poesie. Il dolce amore per Maria, l’assurdità della mafia, l’atavico legame con
la terra, lo strazio dei corpi dispersi nel mare: tutto è raccontato con una
grazia e una sensibilità da far venire i brividi. Ogni pezzo è una delicata
storia da narrare, di quelle che le nonne tramandano ai nipoti, che si depositano
nei ricordi come pregiate rarità.
La prima esecuzione assoluta di Mi chiamo forse sintetizza le peculiarità del lavoro di questi
artisti, raccontando la Shoà dei nostri tempi,
l’emigrazione clandestina, tramite gli occhi disincantati di un bambino, figlio di una settimana che non ha domenica,
di una grammatica la cui sola regola è fare giorno con una bestemmia.
Kayhan Kalhor, artista iraniano
di fama mondiale, è raccolto sul suo kamancheh
in un atteggiamento di intima fusione e profonda meditazione. Accompagnato da
altri due musicisti, alle prese con santur
e zarb, produce note che vengono da
una storia antica, da una terra distante secoli, imbevuta di spiritualità e
poesia, oltre che di sofferenza. Tutto questo è tradotto in una musica che non
può definirsi immediata, sic et
simpliciter.
L’ascoltatore ha bisogno di sintonizzarsi sulle frequenze
della preghiera, dell’estasi, della lirica per poter entrare in questa
dimensione nuova. Le note salgono al cielo come ondeggianti stilemi decorativi,
secondo una tecnica d’improvvisazione
che non ha nulla a che vedere con quella occidentale e che prevede una
conoscenza dettagliata del radif, il
repertorio classico persiano. Il fascino e la magia del risultato, che ci
rapiscono in una sorta di trance emotivo, non lasciano trasparire nulla del
complesso lavoro celato dietro tanta leggerezza.
Momenti di dirompente forza sonora travolgono con nuova
energia la tradizione, ben simboleggiando l’incantata fusione tra presente e
passato.
I Giardini di Luglio
Giardini e Sala
Casella
dell’Accademia
Filarmonica Romana
Dal 28 giugno al 10 luglio 2011
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