
La presenza di un Cristo disteso sul pavimento, in modo ingrato, senza braccia, riposto ai margini della scena. Accanto al suo corpo mutilato, occupa lo spazio centrale, un frigorifero, apparentemente, dal valore simbolico indecifrabile. Corde pendono dal soffitto. Una donna dirompente, coperta da un vestito luccicante, riflette la luce dell’ambiente adiacente. Espone le sue mani al pubblico. Mani con le stimmate, partecipazione totale alla Passione del Nazareno. Inizia un monologo dal peso esistenziale lacerante, a tratti straziante. Riflessione dal sapore di dipendenza, quella sulla Morte umana. La caducità delle membra, il dolore dei segni del tempo, il senso dell’effimera esistenza. E’ la nenia di coloro che son risucchiati dal dovere del compatire chi dalla Morte è poco distante. Inizia la celebrazione dell’odio. Del disgusto. Dell’egoismo. “Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera” . Così recita poi, la voce della giovane donna, che riporta i versi di Salvatore Quasimodo. Dalla rabbia alla malinconia. Da Cecco Angiolieri all’Ermetismo. Irrompe il pragmatismo di gesta quotidiane, insite di compianto, pregne di un fastidioso senso di cura per il morente, si giunge all’infinita malinconia, mai debellata, della solitudine. Attimi, solo attimi, di illusione di sopravvivenza. La realtà della condizione vitale non lascia scampo a nessun individuo. Un malsano senso di uguaglianza pervade i Campi Elisi, ospiti infelici del dio Ade, tutti soli nella comunione della fine. Il Cristo viene messo in croce dopo un sparo di pistola. Il palco aumenta di volume. L’atmosfera si fa tetra, sacra, mistica: la donna recita la quotidiana miseria delle fattezze umane, come un rosario suona ogni bestemmia, ogni parola pesa sulla coscienza. Urina. Feci. Sangue. Carne in decomposizione. Siamo il tutto e siamo il niente. Il phatos esplode. Entra nella pelle la paura di non restare, fino a trascinare le cuoia all’inverosimile della sopravvivenza. Tutto affinché non si muoia.
Viene aperto il frigorifero. Come vaso di Pandora. Si rivelano i mali. Una testa di bue. Una testa di asino. Le reliquie vengono portate al cospetto del dolore divino: il viso di un dio fattosi uomo è sulla stessa linea d’orizzonte di carcasse di bestie che appaiono indecorose. La morte come livella incorruttibile. Si dissolve l’ipotetica visione romantica dell’Eternità Sconosciuta in crude realtà di solitudine, di osservata totale impotenza. Si preferisce così, il gesto volontario dell’ autoproclamarsi
Alla fine la luce è proiettata sul pubblico. Per chiarire che non è una messa in scena il repertorio di domande, a cui Babilonia Teatri ci sottopone, ma realtà quotidiana dalla quale non si sfugge. In cui ognuno di noi è attore protagonista della propria opera, diretta da un regista sconosciuto e dal finale scontato.
“The end” di Valeria Raimondi e Enrico Castellani è un lavoro di ricerca proiettato verso la riflessione che non consente delega, sull’esistenza che non conosce sconti di critica e di priorità.
The end
di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
con Valeria Raimondi, Enrico Castellani, Ilaria Dalle Donne, Luca Scotton
collaborazione artistica Vincenzo Todesco
scene Babilonia Teatri/Gianni Volpe/Luca Scotton/Ilaria Dalle Donne
luci e audio Babilonia Teatri/Luca Scotton
costumi Babilonia Teatri/Franca Piccoli
organizzazione Alice Castellani
produzione Babilonia Teatri, CRT Centro di Ricerca per il Teatro
in collaborazione con Operaestate Festival Veneto e Santarcangelo 40
con il sostegno di Viva Opera Circus
Teatro Palladium – Roma
4/6 marzo 2011
Irene Corradino