Articolo Creative Commons uscito su Pensieri di Cartapesta
mercoledì 5 febbraio 2014
BUTTARE LI QUALCOSA E ANDARE VIA
DI BENEDETTA DI MARZIO
Articolo Creative Commons uscito su Pensieri di Cartapesta
Gianpaolo Marcucci, fondatore di Pensieri di Cartapesta, ha promosso il concetto di critica costruttiva, ritenendo il modo tradizionale di fare critica obsoleto e dannoso per la cultura stessa.
I. «…Sai, oramai sono impegnato, devo scrivere un libro all’anno per il mio editore». Così un giorno ti si rivolse uno scrittore; cosa ti suscitò la sua rivelazione?
G.M. Lì per lì mi apparve comprensibile: divenuto noto per il suo ultimo testo di successo, lui e le persone che avevano creduto in lui, riponevano molte aspettative nel suo futuro di scrittore professionista. Eppure più tardi ripensandoci accuratamente, mi accorsi che qualcosa in quella frase non tornava. Le parole artista e professionista mi apparvero d’un tratto in forte contrasto. Cominciai a pormi delle questioni: si può essere un artista di professione? Cosa vuol dire? Come ci si diventa? Si è poi dopo artisti solo fino alla pensione? Qualsiasi prodotto di un artista di professione è in quanto tale un prodotto artistico? E se una persona un giorno produce un’opera d’arte, da quel giorno in poi, sarà dunque considerato artistico qualsiasi suo prodotto futuro?
2. La tua riflessione si è incentrata dunque sul ruolo dell’artista e sulla questione del dovere nella produzione dell’arte.
G.M. Esattamente. Un’opera d’arte è qualcosa di spontaneo, una fotografia di un momento di contatto profondo tra l’uomo e la sensibilità. La sensibilità, non la sua sensibilità, perché la sensibilità, come l’arte, non appartiene a qualcuno, non appartiene affatto. Esiste a prescindere dalla mia esistenza, dalla mia capacità di coglierla. La sensibilità può essere percepita da tutti, non solo da alcune persone magari più colte, non ha niente a che vedere con l’intelletto e non può essere “fermata” in alcun luogo. Come si può decidere o sforzarsi di creare questo contatto? Pianificarlo? Come si può dover scrivere un libro, un album, uno spettacolo? Certo questo meccanismo esiste, non lo si può negare, ma riconosciuto ciò, è a quel punto di arte che si sta parlando? O forse non c’è arte dove non c’è libertà e non c’è libertà dove c’è forzatura?
3. A cosa conduce allora questo meccanismo?
G.M. Facciamo un esempio. Ho scritto una bella canzone, una canzone vera, artistica; per questo subito mi darò l’etichetta di cantautore e cercherò in tutti i modi di scriverne altre, e poi altre ancora. Se un giorno incontrerò difficoltà nel farlo, mi dirò che è il momento di vuoto dell’artista, che devo pazientare. Così nascono i gruppi, i registi, gli scrittori e il pensiero è placato dalla coerenza. Ma l’arte non è coerenza, è tutto il contrario: è fuori schema, è sorpresa, è nuovo.
4. A quali conclusioni sei giunto?
G.M. Non sono giunto a conclusioni, ma forse si potrebbe individuare un confine tra l’arte, la manifestazione della sensibilità, ogni volta nuova e dinamica e i voli pindarici dell’intellettualismo e del pensiero, sterili imitazioni, elaborazioni di dati in memoria, libri di cui è rimasto solo il titolo, peraltro incomprensibile. La carriera, il lavoro, il denaro, il successo, la fama, l’ego, il possesso: l’arte per il pensiero non è diversa dal resto. Se esiste un processo differente da questo non lo so ancora, ma immagino: quanto sarebbe bello se ci fosse qualcuno in grado di regalare la propria esperienza di sensibilità senza voler nulla in cambio, qualcuno che anzichè trincerarsi dietro l’egoistica concezione di possesso della propria arte e di identificazione in un ruolo inesistente, fosse, senza pretese di paternità, semplicemente capace di buttare lì qualcosa e andare via?
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MA CHE RUOLO ABBIAMO NOI: L'Antimanifesto della Cultura
DI GIANPAOLO MARCUCCI
Accade, seppur troppo di rado, che ci si trovi a riflettere sul proprio ruolo all’interno della società. Qual è il mio scopo, a che serve ciò che faccio? Come contribuisco a far vivere meglio le persone intorno a me? E soprattutto, contribuisco?
Chi opera e lavora nell’ambito dell’arte e della cultura si trova oggi in un momento di profonda crisi, economica, valoriale, identitaria. La cultura è osteggiata dalla politica, omessa dai media e, cosa ancor peggiore, incompresa dal proprio pubblico che non vi si riconosce.
Ma che cosa è successo? Come mai i cosiddetti “operatori culturali” non riescono più a lavorare, a far sentire la loro voce, a definire il loro ruolo, a percepirsi e ad essere percepiti come utili all’interno della società?
Alcuni potrebbero dire che non è più il momento, che ci sono priorità diverse, che la gente non è interessata, non ha tempo o è superficiale; altri invece che la cultura è una cosa snob, che si è auto-esiliata su un’isola di intellettualismi volubile ed elitaria e l’elitarismo si sa, se non è almeno a 6 zeri, non fa mercato.
Dapprima di fronte a tali supposizioni verrebbe voglia di dire che sono errate, incomplete, faziose. Dunque un bravo editorialista dovrebbe attaccarle o addolcirle, dire che non è vero che la gente non vuole la cultura e che gli artisti e gli intellettuali sanno come rivolgersi alle persone; che c’è solo bisogno di un nuovo spirito, di una nuova spinta, di un nuovo manifesto, ed ovviamente, di un nuovo bonifico bancario che permetta alla cultura di sopravvivere, di respirare, di produrre la Tosca! Finalmente! Ancora una volta.
Ma io non sono un bravo editorialista e più che dare affrettate risposte preferisco pormi alcune domande:
se fosse vero che la massa è superficiale, che non è interessata e non ha tempo?
Se fosse vero che la cultura si è chiusa in un intellettualoidismo fine a se stesso che la rende sempre più miseramente autoreferenziale?
Se fosse vero tutto? Cosa significherebbe?
A mio parere, per la reale risoluzione di un problema è importante prendere in considerazione tutti gli scenari possibili e secondo lo scenario che si aprirebbe di fronte ad una crisi così profonda, verrebbe da dire che la cultura sta perdendo non solo la sua identità ma anche la sua funzione.
Di fronte ad una massa reduce da 20 anni di coma televisivo, schiacciata da ritmi di lavoro sempre più oppressivi e appesantita da una alienazione sottile che si manifesta in uno sgretolamento palese delle relazioni sociali, la cultura cosa può fare? Continuare a rivolgersi all’élite borghese pagante che va a teatro e alla mostra perché è da farsi? Proseguire nell’opera di creare un pubblico di addetti ai lavori quasi a mo’ di setta in cui chi oggi applaude domani sarà di sicuro applaudito? Oppure aprirsi alla realtà e coinvolgere anche color che son d’altri gironi?
L’arte e la cultura dovrebbero aver la funzione di far nascere domande, di porre in discussione il conosciuto, di creare dubbio e apertura, di avvicinare le persone alla propria sensibilità, alla propria anima, a ciò che al contrario dell’intelletto è utile per crescere emotivamente, empaticamente. Il ruolo della cultura dovrebbe essere quello di educare la società ad evolversi a livello emotivo (e solo in funzione secondaria e opzionale a livello intellettivo) perché solo un cambiamento profondo, viscerale, lascia il segno nell’evoluzione di se stessi e della società.
Se vogliamo fare un passo avanti dobbiamo farlo uniti e la cultura così come la conducono burocrati, tecnici e intellettuali disonesti, non è per includere nulla se non la sua piccola corte. Prima di tutto pensiamo ad educare le persone alla cultura, dimostriamo apertura, riappropriamoci della semplicità e facciamo sì che chiunque possa fruirne e potersi emozionare,poter riflettere.
Il nostro intento dovrebbe essere quello di portare a teatro, al cinema, in libreria, nei musei, negli spazi performativi alternativi, coloro che non ci sono mai andati, che preferiscono guardare la tv o seguire l’ultima saga di Trasformers perché è più facile. Dobbiamo includere tutti, rivolgerci a loro ed educarli pian piano al mondo dell’arte. Ma lo sforzo dobbiamo farlo noi! Se non arriviamo alle persone, non ce la prendiamo con loro appellandole come superficiali; cerchiamo piuttosto di rivedere i nostri metodi, di metterci in discussione, di parlare in modo più chiaro. Insomma, lasciamo gli enti lirici e scendiamo in strada, nelle piazze, sulla metro, nelle case, facciamo sì che tutti possano riconoscersi in ciò che creiamo e che possano parteciparvi, sentendosi accolti. Lavoriamo verso l’inclusione, verso la diffusione e l’educazione. Solo così potremo rinascere dalla situazione di zombismo in cui siamo e costruire una cultura che sia sempre meno dell’io e sempre più del noi.
“Dio del cielo se mi vorrai amare scendi dalle stelle e vienimi a cercare.”
Fabrizio De Andrè
venerdì 3 maggio 2013
Due coppie. Quattro individui
di Gianpaolo Marcucci
Due coppie, Quattro individui, quattro storie, quattro raccolte di dati, informazioni: Foto , racconti, esperienze, sogni, speranze, fallimenti. Vite.
Qualcuno potrebbe pensare che la storia di una vita sia superficiale, che sia richiesto di condirla, che sia necessario qualcosa di più, qualcosa di diverso, di profondo, qualcosa di più. Ma cosa vuol dire superficiale? C'è qualcosa di più o meno superficiale? A pensarlo la risposta viene quasi da sola: Si che ci sta, certo che ci sta, cazzo.
Ma la terra trema sotto i piedi se arriva qualcuno e butta li una domanda: C'è qualcosa di più o meno superficiale di fronte alla morte? Accidenti, non me l'aspettavo. La morte; di morte l'uomo parla sempre, in ogni suo gesto, ogni sua azione, ogni pensiero.
Di fronte a Dio se lo chiami Dio, di fronte al fatto che non ci sei più (c'eri prima?) conta davvero un'opera di intelletto più di una partita di pallone? Conta davvero un'introspezione profonda più di una risata?
Cosa conta che lavoro fai o che lavoro volevi fare? Che cosa hai e cosa ti manca? Cosa conta di più?
Io voglio stare lontano da quella sensazione che mi atterrisce, che mi stringe la gola. Voglio sentirmi al sicuro.
E cosa allontana (e allo stesso tempo avvicina) di più dalla morte? Cosa dà l'illusione di essere al sicuro, al sicuro da tutto, anche dalla morte, e quindi di poter morire?
Amore è la parola più difficile che proviamo ogni giorno a pronunciare.
E allora ecco due coppie: Quattro corpi diventano solo due, quattro mezzi.
Cedere la metà di se stessi è sempre un atto chirurgico, traumatico. A chi cediamo noi stessi? Chi è la persona che abbiamo davanti? Basta la storia della sua vita a farmela conoscere?
Quando si racconta l'amore si mente sempre un poco, magari per mentire a se stessi, magari per "mentire se stessi". Quando si racconta l'amore, si pensa, almeno nell'ultimo gradino in fondo alla mente, che poi sarà così. Conta tutto, certo, ma conta sopra "tutto" quello che vuoi, e tu "vuoi farti sposare da un uomo? O vuoi farti scopare da un uomo?". Ogni scopo vuole una strategia, un comportamento, una negoziazione, un accomodamento, un compromesso, una piccola (piccola?) menzogna.
E dove c'è accordo, c'è rischio di non rispettarlo e dove c'è rischio, c'è violenza pronta ad uscire. Le unghie ce l'hanno fatte, sappiamo usarle, le usiamo.
Amore, ma non doveva essere quella cosa bellissima che ti mette al sicuro? Non doveva essere la nostra vittoria sull'oblio?
Si, doveva, ci avevano creduto tutti, "But love is not a victory march, it's a cold and it's a broken hallelujah".
Due coppie, quattro individui, una sola persona, io, te
Teatri di Vetro - Teatro Palladium
Venerdì 26 aprile 2013
Farmacia Zoo:E' - Religions 1.Studio
Regia: Gianmarco Busetto e Carola Minincleri
Interpreti:
Gianmarco Busetto Alessia Barbiero Debora Slanzi Enrico Tavella
mercoledì 30 gennaio 2013
venerdì 28 ottobre 2011
SINDROME DI CASSANDRA
di Claudia Romito
Il futuro è un’ipotesi… plausibile
Un canto che si interrompe, sguardi che sfuggono,
nomi che restano impronunciati. L’imbarazzo che accoglie Cassandra è quello che
spesso circonda ciò che non si comprende o che non si vuole comprendere. Il
timore suscitato dalla profetessa di Apollo è dettato dalla sua apparente
distanza, dalla superbia involontaria di chi amava tutti,
ma da lontano.
Elisabetta Pozzi entra
in scena con un canto caldo, ma un po’ inquietante; la sua voce è profonda e
amplificata da un utilizzo strategico del microfono. È una voce profetica, che
sembra provenire dall’alto, da un dio; ma anche dal basso, dal ventre, dalle
profondità di un tempo divorato e diventato
visceralmente parte del corpo della profetessa.
Per predire il futuro basta capire il
presente e ricordare il passato.
Così Cassandra ci parla di un passato ancora vivo, di un futuro amaramente
incerto. Una Cassandra stratega, economista, il cui dono divino sembra in fondo
nient’altro che una saggia lungimiranza, accompagnata da una acuta capacità di
analisi. Un palchetto scosceso è l’unico elemento scenografico. Attorno a
questo e sopra di esso si muovono anche il mimo Hal
Yamanouchi e due ballerine che seguono il monologo come
un’eco lontana. Solo a tratti la danza interagisce con la protagonista, e in
quei momenti i personaggi del suo racconto sembrano impossessarsi dei corpi dei
danzatori, fornendo all’attrice la possibilità di reagire a impulsi fisici che
ne intensificano l’interpretazione.
Nella drammaturgia curata da Elisabetta
Pozzi e Aurelio Gatti,
i testi tragici si intrecciano alle visioni profetiche di Baudrillard e ai
pensieri più intimi della Cassandra di Christa Wolf, in un lungo monologo che
ci svela uno dei personaggi più intriganti della mitologia classica, per quel
tanto che vuol farsi svelare, senza forzare quella sorta di pudore che l’avvolge.
Come un personaggio senza tempo, che di tempo però
si nutre, la Cassandra di Elisabetta Pozzi arriva fino ai giorni nostri e forse
li supera, proiettandosi in un futuro fantascientifico e apocalittico. Sul
finale, la discesa verso un baratro fatto di economia selvaggia e tecnologia
potenzialmente pericolosa è paventato dalla profetessa in maniera piuttosto
pessimistica. Il palchetto sembra, a questo punto, una fragile zattera su cui
si affollano l’attrice e i danzatori, come quattro naufraghi, aggrappati alla
fragile speranza di non restare, almeno per questa volta, inascoltati.
CASSANDRA o del tempo divorato
Mistras/Mda Produzioni
Danza
da Omero, Eschilo, Euripide, Seneca,
Jean Baudrillard
con il contributo di Massimo Fini
drammaturgia Pozzi - Gatti
coreografie Aurelio Gatti
musica originale Daniele D'Angelo
costumi Livia Fulvio
con Elisabetta Pozzi, Hal Yamanouchi,
Carlotta Bruni, Rosa Merlino, Martina Armaro
luci Stefano Stacchini
realizzazione Scene Capannone Moliere
dal 19 al 23 ottobre 2011, ore 21:00 - domenica ore 19:00 -
Teatro Vascello, Roma
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